IL LATO OSCURO DEI MONDIALI – PUNTATA 1o – Rimet sognava un torneo che avrebbe “unito le nazioni, avvicinando i popoli e rendendo il mondo un solo grande paese”. Non è andata proprio così. Da Francia 1938 a Qatar 2022, la Coppa del Mondo è anche una storia di guerre, omicidi, imbrogli e regimi dittatoriali. Puntata dopo puntata, vi raccontiamo le storie emblematiche degli intrecci tra calcio e potere

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Roberto Beccantini è una delle penne più lucide del giornalismo sportivo italiano. In un libro dedicato al Mondiale del 1978 parlò così della sua esperienza da testimone oculare nelle varie edizioni della coppa del mondo – il suo debutto avvenne proprio in Argentina – riguardo al rapporto tra arbitraggi e Mondiali: “A proposito di finali, fu molto più scandaloso il Codesal messicano di Germania-Argentina a Roma, finale di Italia ‘90, rispetto al nostro Gonella a Buenos Aires. E l’Argentina fu aiutata dagli arbitri, sì, ma molto meno, per esempio, di quanto non sia stata spinta la Corea del Sud nel 2002”. Per i direttori di gara non esiste abisso più profondo di quello del Mondiale nippocoreano, e non è necessario essere complottisti da tastiera o moviolisti terminali per poterlo affermare. All’epoca anche un giornale sobrio e di spessore come il Los Angeles Times scrisse, prima della fine del torneo, che “nell’albo d’oro del Mondiale, accanto al vincitore della coppa – chiunque esso sia – dovrebbe essere messo un asterisco recante la scritta: con l’aiuto degli arbitri”. Piaccia o meno, quello del 2002 non è stato solo il Mondiale del Brasile di Ronaldo, ma anche quello di Byron Moreno, di Gamal Al-Ghandour, di Peter Prendergast. Il Mondiale degli errori.

Tutti in Italia conoscono Moreno, per il quale non serve spendere ulteriori parole. La Corea del Sud aiutata a superare gli ottavi di finale fu poi nuovamente favorita da Al-Ghandour nei quarti contro la Spagna, anche se il macroscopico errore sul gol annullato a Fernando Morientes fu imputabile più al guardalinee Micheal Ragoonath, che valutò oltre la linea di fondo campo un pallone invece pienamente in gioco, piuttosto che al direttore di gara egiziano. Prendergast invece annullò una rete regolare a Wilmots che, negli ottavi, aveva sbloccato il risultato tra Belgio e Brasile, per poi scusarsi nell’intervallo con il giocatore per l’errore commesso. Lo stesso Belgio probabilmente non avrebbe nemmeno superato i gironi senza l’errore del bielorusso Yuri Dupanov, che non convalidò al Giappone una rete valida. Arbitraggi gravemente insufficienti furono anche quelli di Vitor Melo Pereira agli ottavi in Messico-Stati Uniti (un solare mani in area di O’Brien non fu punito con il rigore) e di Lun Ju in Polonia-Stati Uniti ai gironi. Nel 2010 questo direttore di gara, votato due volte arbitro asiatico dell’anno, sarebbe stato condannato in Cina a cinque anni di carcere per corruzione.

Facile pensare, in mezzo a un simile sfacelo, che il Mondiale nippocoreano sia stato studiato a tavolino per favorire certe nazionali. Tuttavia non è mai emersa alcuna prova concreta a supporto di tale tesi, e nessuno si è mai preso la briga di spiegare perché, nel clima solitamente favorevole che accompagna i paesi organizzatori del Mondiale, fu deciso di favorire la Corea del Sud e non anche l’altro paese organizzatore, il Giappone. Questo non significa che non siano state condotte delle inchieste su quanto avvenuto nella prima coppa del mondo del nuovo millennio. Tutte però sono state svolte fuori dai canali ufficiali, visto che il principale responsabile del disastro risultava essere la Fifa e la sua gestione dilettantistica nei criteri di selezione e designazione degli arbitri. Un sistema basato su un concetto posticcio di inclusività che prevedeva la scelta di un solo direttore di gara per paese, e derivante dalla volontà politica della Fifa di ingraziarsi il maggior numero di federazioni possibili (all’epoca erano 204 quelle affiliate) garantendo la presenza di un proprio rappresentante al torneo.

La Fifa aveva barattato competenza, capacità ed esperienza internazionale dei direttori di gara con la ricerca di consenso, e voti, infiocchettando il tutto con una bella dose di politically correct. Uno valeva uno, nonostante le profonde diversità nel background dei vari arbitri, alcuni dei quali nemmeno erano professionisti. In un libro intitolato Voetbal en mafia (Calcio e mafia), i giornalisti sportivi olandesi Tom Knipping e Iwan van Duren hanno dedicato un intero capitolo al Mondiale 2002, nel quale sono emerse tutte le falle del sistema di selezione della Fifa. Jaap Pool, guardalinee olandese presente in Giappone e Corea, ha raccontato che “fin dai nostri primi incontri si percepiva il netto divario con molti arbitri provenienti da paesi dove non erano quasi remunerati per la loro attività. Normalmente prima di un evento si cerca di formare una squadra, ma all’epoca non fu possibile, perché quasi nessuno parlava inglese. Nell’aprile del 2002 volammo a Seoul per un corso Fifa della durata di una settimana. A giugno ce ne fu un altro, ma molte indicazioni erano diametralmente opposte a quelle di aprile. Un collega chiese spiegazioni e la risposta del delegato Fifa fu: aprile è passato, adesso siamo a giugno. Ancora oggi la gente con cui parlo fatica a credere come un Mondiale posso essere stato organizzato con un simile dilettantismo”.

Belgio-Brasile, la partita che ha macchiato il percorso della nazionale di Scolari verso la quinta coppa del mondo messa in bacheca dal loro paese, la terna arbitrale era composta da un giamaicano (Prendergast), un bielorusso (Dupanov) e un maldiviano (Saeed), con un giapponese (Kamikawa) come quarto uomo. Nel famigerato Corea del Sud-Spagna c’erano un egiziano (Al-Ghandour), un ugandese (Tomusange) e uno di Trinidad e Tobago (Ragoonath), con un kuwatiano (Mane) come quarto uomo. Un meltin’ pot che molto difficilmente avrebbe potuto consentire una buona comunicazione reciproca. Uno dei pochi a spezzare una lancia a favore dei direttori di gara fu Edgardo Codesal, probabilmente il peggior arbitro di una finale Mondiale, che nel 2002 era membro del comitato arbitrale della Fifa. Non serve aggiungere altro, anche perché fu lo stesso Joseph Blatter ad ammettere, una volta archiviato il torneo, la necessità “di tornare a una terna arbitrale della stessa nazionalità, dal momento che la mancanza di comunicazione è stata alla base dei numerosi errori commessi”. Con buona pace di Morientes, Wilmots, Tommasi e dei fegati di milioni di tifosi.

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