“Scoppia il QatarGate, e la prima cosa che fanno i giornali è titolare sul lobbismo. Sono incazzato nero, certo che sì. Il lobbismo è una cosa seria, non sta roba dilettantesca e abborracciata dei politici, di sinistra per altro. Questi svendono il mandato pensando di fare concorrenza ai professionisti seri, quelli che fanno questo mestiere con dignità e onore”. Non le manda a dire, Claudio Velardi, non un lobbista qualunque ma “l’esperto dei due mondi”, quelli che a Bruxelles incendiano l’unico organo elettivo d’Europa. Napoletano, classe 1954, un lungo impegno politico nel Pci-Pds-Ds, poi renziano di ferro, Velardi si è reinventato spindoctor e poi lobbista. Ha indossato entrambe le scarpe su cui cammina questa vicenda. Gli vanno strette entrambe. Dicendo la sua al Fatto.it, si toglie anche diversi sassolini. Ex braccio destro di D’Alema, di Panzeri dice “l’ho conosciuto di striscio” quando era alla Camera del Lavoro. La sua piccola società di lobbying (Reframe, circa 400mila euro di fatturato) non opera a Bruxelles. Col “manifesto delle lobby” spinse per l’adozione di una legge che in Italia non c’è. Da ex segretario del Pci in Basilicata e poi consigliere politico di leader ha anche molto da dire sulla “questione morale” che s’abbatte ancora una volta sulla sinistra, quella che da Soumahoro a Panzeriperde la faccia su quel poco che le resta, i diritti”. Ma andiamo con ordine.

Velardi, che idea si è fatto di questa vicenda?
Oltre la cronaca giudiziaria e lo scandalo emerge un serissimo tema di democrazia. L’Europa si scopre fragile perché è una democrazia compiuta, e come tale si è sottoposta a tutta una serie di regole, certo perfettibili, improntate all’equità, legalità, trasparenza etc. E’ chiaro che quando arrivano invece Stati che democratici non sono, ma svolgono il loro marketing aggressivo nei confronti di Paesi democratici trovano un varco nel paralobbista di turno, cui possono allungare la mazzetta. Hai voglia a dire “facciamo regole più rigide in materia di lobbying”, quando hai questo scompenso. Che magari fa comodo per altri versi.

Scusi, in che senso?
Appeso a questa storia c’è anche un altro tema. Il Qatar voleva fare i mondiali di calcio e che si dicesse “siamo buoni, bravi e belli” per far girare un po’ di soldi. Che infatti sono girati ovunque e forse troppo, a quanto pare. Ma dal Qatar ti arriva anche in sacco di gas, per dire. E allora o tu chiudi con il Qatar su tutto quanto il fronte, oppure non è che qualche fronte lo puoi tenere aperto e un altro no. C’è proprio questo problema di governance globale nel rapporto coi paesi ricchissimi ma non democratici. Se non si risolve, faranno sempre una sorta di dumping su quelli democratici.

Torniamo ai lobbisti, che lei difende.
Io dico solo che questa vicenda non ha nulla a che fare con il lobbismo verto, professionale. Parlo di quello che svolgono secondo regole e principi etici tanti, soprattutto giovani, ma anche delle società strutturate che agiscono sul mercato con trasparenza, quelle che hanno statuti, bilanci etc. E con il loro lavoro contribuiscono semmai a migliorare le regole e le leggi rappresentando interessi non individuali ma collettivi, di aziende, di settori. Del resto fate la prova voi stessi: prendete le prime 10-15 società in Italia censite da Forbes, non ne troverete una invischiata in una vicenda sordida come questa o incappata nelle maglie della giustizia. Perché qui i protagonisti e il problema sono proprio altri.

Quali sono, secondo lei?
La mancanza di regole e anticorpi che creano questa “zona grigia” che lascia spazio agli improvvisati che si muovo per motivi di interesse personale. In cambio di una mazzetta, magari o delle vacanze pagate. E’ un po’ come quando incappi nel dentista che ti toglie il dente e non ha la laurea, fa danni enormi ma ha barato sulle regole. In Europa bisogna assolutamente mettere mano a queste regole, al meccanismo delle “porte girevoli” che è poi quello che ha permesso a Panzeri di rientrare subito con altri panni. Magari con un “periodo di raffreddamento” come avviene per le imprese, chessò: tre anni. Perché non si tratta di impedirgli questa professione a vita, ma di uscire da un parlamento con la prospettiva certa di poter mettere a frutto le competenze e il sistema di relazioni che hai conquistato, ma per un interesse non chiaro e non esplicito. In Italia del resto siamo messi anche peggio.

Ecco, quanto peggio?
Nella scorsa legislatura fummo a un passo dall’approvare una legge che avrebbe messo i primi paletti seri a chi tenta questo mestiere muovendosi nell’ombra. Non passò, come altre sette proposte presentate, perché gli stessi parlamentari non la volevano: avrebbe impedito loro, specie quelli che non avevano un mestiere, di passare subito dall’altra parte del tavolo, perché è evidente che c’è una contiguità fortissima tra politica e lobbismo. Per questo serve una paratia stagna.

Altro da dichiarare?
Sì, le regole che servono devono essere improntate alla re-ci-pro-ci-tà. È un concetto molto serio. Così come alle lobby viene chiesto, giustamente, di essere trasparenti, le istituzioni devono rispondere con analoga chiarezza. I loro rappresentanti devono, ad esempio, dichiarare chi hanno ricevuto, rendere noto cosa hanno risposto alle loro istanze. Si devono, insomma, proceduralizzare le consultazioni.

QatarGate, un altro scandalo a sinistra. Cosa ne pensa lei, che da lì arriva?
Che dimostra una volta di più come la sinistra non risponde più agli obiettivi per cui è nata. Era nata 150 anni fa con alcuni obiettivi epocali. “Proletari di tutto il mondo unitevi”, ed è successo. Voleva il welfare, è arrivato. La vera sinistra, senza entrare nei meriti, ha conseguito i suoi obiettivi storici ed è morta. Le ultime cose di sinistra che ricordi, ma lei forse questo non lo scriverà, sono state il Jobs Act e Industria 4.0 di Renzi, ma di una sinistra diversa, moderna al passo coi tempi. Resta solo il campo dei diritti, ma anche qui vacilla perché è troppo poco per una grande forza politica. Non a caso questa storia avviene sulla pelle dei diritti dei lavoratori catarioti. Che è poi lo stesso dell’affaire Soumahoro, ma l’ho anche detto: avrei candidato un rider qualunque, un vero sfruttato dei giorni nostri, non un’icona facile e buona per la mistica dei diritti come il nero sfruttato che si affranca alzando una bandiera. Per poi scoprire, magari, che non era così.

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