Sono mesi che si attende la chiusura delle indagini da parte della Procura di Bergamo sulla gestione della prima ondata di Covid-19 nel nostro Paese, quando, in mezzo alle valli della Bergamasca, morirono oltre seimila persone su un milione di abitanti. L’area della Val Seriana, i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, in poco tempo, tra gennaio e febbraio del 2020, diventarono la Wuhan d’Europa. I quesiti che il pool dei pm di Bergamo, guidato dal procuratore Antonio Chiappani, ha cercato in questi anni di risolvere sono cinque: come fu gestita la pandemia dentro l’ospedale di Alzano; come furono trattati i pazienti nell’ospedale di Alzano; come il virus si diffuse, a partire dal Pesenti Fenaroli, alla Val Seriana; se fosse necessario istituire una zona rossa nell’area di Alzano e Nembro; come fu applicato il piano pandemico nazionale. Sappiamo che quel 23 febbraio di due anni fa non fu il giorno zero del contagio. Sappiamo anche che, secondo le stime, si sarebbero potuti evitare da due a quattromila vittime se la zona rossa in quell’area fosse stata dichiarata tempestivamente. Il Fatto ora può raccontare, in esclusiva, alcune delle ricostruzioni e delle analisi in grado di restituire agli italiani, secondo la super perizia, quanto successe in quei mesi.

LA MANCATA APPLICAZIONE DEL PIANO PANDEMICO – La tesi dei periti della Procura di Bergamo è che il Piano pandemico italiano del 2006 sarà stato anche vecchio e da aggiornare ma sarebbe stato utile applicarlo fin dal 5 gennaio del 2020, quando l’Organizzazione mondiale della sanità diramò l’allerta per le polmoniti sconosciute che facevano morti in Cina. Trattandosi di un Paese con il quale l’Italia ha “intensi collegamenti o scambi commerciali”, come si legge in quel Piano, si era nella fase 3.1 delle sei previste e quindi il governo e le Regioni, secondo i periti, avrebbero dovuto attivarsi fin da allora per le scorte di dispositivi di protezione, le misure di sorveglianza (tamponi, reagenti, laboratori, ecc), la verifica dei posti nelle terapie intensive e una serie di adempimenti che invece mancarono. E così, tra febbraio e marzo, fummo travolti soprattutto in Lombardia da un virus che già correva da un pezzo. Insomma, secondo i periti non è vero che “non avevamo un manuale di istruzioni” per affrontare il nuovo Coronavirus, come sostenne l’allora ministro Roberto Speranza: il manuale c’era, ma non fu aperto nemmeno a febbraio, forse perché si diede per scontato che siccome era in corso l’aggiornamento fin dal lontano 2018 quel Piano non servisse più. Per dirne una, il presidente dell’Istituto superiore di sanità Sergio Brusaferro ha dichiarato di averlo letto solo nel maggio 2020. Come è noto, fecero un altro piano a febbraio, peraltro secretato per non allarmare la popolazione, ma era tardi.

La questione del Piano pandemico era uno dei cinque quesiti posti dai pm di Bergamo ad Andrea Crisanti, microbiologo dell’università di Padova e oggi senatore del Pd, al medico legale Ernesto D’Aloja che insegna a Sassari e all’ex direttore della Asl di Pavia, Daniele Donati. Nella relazione i consulenti della Procura hanno indicato i possibili responsabili della mancata attuazione del Piano nei vertici tecnici di allora del ministero della Salute, dell’Iss, del Comitato tecnico scientifico – che però fu istituito solo a febbraio – e della direzione Welfare di Regione Lombardia. Ha messo in fila le loro presunte contraddizioni e ha smontato la giustificazione che il vecchio Piano non fosse adatto perché relativo ai diversi virus dell’influenza, riferita da quasi tutti gli interessati sentiti come testimoni. Peraltro, hanno osservato, la stessa Oms aveva espressamente suggerito ai governi di applicare i piani antinfluenzali e oggi sappiamo come le restrizioni anti-Covid abbiano poi bloccato l’influenza nell’inverno 2020/2021. Ce n’è per tutti. Il direttore della Prevenzione di allora, Claudio D’Amario, nel verbale che i periti hanno letto avrebbe mostrato di non avere ben chiare le procedure del Piano, proprio lui che avrebbe dovuto metterle in atto. Giuseppe Ruocco, che era il segretario generale e dunque il vertice amministrativo della Salute, ignorò il Piano. Non mosse un dito neppure Luigi Cajazzo, ai tempi direttore del Welfare lombardo, che secondo la relazione avrebbe dovuto applicare il Piano pandemico regionale del 2009 dopo aver ricevuto il 9 gennaio, come i suoi omologhi nelle altre Regioni, la comunicazione ministeriale con l’allerta dell’Oms.

LA MANCATA ZONA ROSSA IN VAL SERIANA: QUANTI MORTI SI SAREBBERO POTUTI EVITARE – Ai periti i pm chiedevano, tra le altre cose, di sciogliere il nodo della mancata zona rossa di Alzano Lombardo e Nembro, i Comuni della Bergamasca decimati dalla pandemia dove il virus cominciò subito a far danni come emerse, almeno ad Alzano, il 23 febbraio 2020, proprio il giorno in cui vennero disposte le prime zone rosse dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte ma solo nei dieci centri del Lodigiano, Codogno in testa, e a Vo’ Euganeo nel Padovano. Con l’ausilio di modelli matematici, i periti spiegano che nel territorio provinciale di Bergamo si sarebbero registrati oltre 4mila morti in meno, rispetto a un eccesso di mortalità di circa 6.500, se la chiusura fosse stata decisa il 27 febbraio, quando cioè la progressione geometrica dei contagi analizzata da Stefano Merler della Fondazione Kessler, consulente chiave dell’Iss, aveva mostrato con chiarezza al Cts che i casi crescevano del 30/40 per cento al giorno (quindi già il 29 sarebbero stati mille in 24 ore); oltre 2.500 decessi in meno se invece la zona rossa fosse stata disposta il 3 marzo. Anche ad Alzano e Nembro, dove secondo l’analisi dei periti il virus era arrivato molto presto, i morti sarebbero stati poco più che dimezzati con l’anticipo al 27 e ridotti di un terzo con le misure adottate il 3. È noto invece che si attese il 7 marzo per scegliere di chiudere tutta l’Italia a partire dal 9 marzo. Qui ce n’è anche per Conte che, secondo le risultanze dell’indagine in una riunione estesa del Cts, il 2 marzo invitò alla “parsimonia” sulle zone rosse per non creare “problemi sociali ed economici”; il 5 marzo Speranza firmò una bozza del decreto per Alzano e Nembro, ma rimase una bozza e il Viminale mandò una colonna di mille carabinieri a cinturare i paesi interessati per poi richiamarli indietro. Per la cronaca, il weekend del 29 febbraio era quello degli aperitivi promossi dal sindaco di Milano Giuseppe Sala sui Navigli con lo slogan “Milano non si ferma”. La Confindustria bergamasca diffondeva in quei giorni il noto spot “Bergamo is running”, in inglese perché rivolto agli investitori stranieri. Infatti molte aziende lombarde e non solo continuarono ove possibile a correre, con le deroghe, anche durante il successivo lockdown. E il 28 febbraio una mail del governatore leghista lombardo Attilio Fontana, agli atti dell’indagine, dimostrerebbe la consapevolezza della dinamica del contagio senza però questo si traducesse nel chiedere ulteriori misure al governo centrale.

LE RESPONSABILITÀ DI REGIONE LOMBARDIA – Fontana però, oltre a chiedere, poteva anche agire. Le zone rosse poteva farle anche la Regione e perfino i sindaci, questi ultimi tuttavia meno informati sull’evoluzione dell’epidemia. L’articolo 1 del decreto legge n° 6 del 23 febbraio 2020 lo diceva a chiare lettere: “Nei Comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio del menzionato virus, le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento”. Non c’era nemmeno bisogno del decreto legge, come ricordano i periti bastavano le norme generali sul Servizio sanitario nazionale. Per rispondere ai quesiti 1 e 2 della Procura i consulenti hanno analizzato nel dettaglio quando accadde all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano, chiuso il 23 febbraio 2020 per la scoperta di un positivo che nascondeva un focolaio, ma riaperto dopo poche ore d’intesa con la direzione regionale. Il virus era entrato da settimane e fece un disastro, molto peggio che a Codogno dove era stato individuato il presunto paziente uno, Mattia Maestri, che invece era il paziente ennesimo; molto peggio che a Schiavonia, nel Padovano, l’ospedale vicino a Vo’, a riprova della distanza siderale tra Lombardia e Veneto e tra i leghisti che governano le due Regioni.

Un interessante calcolo dei periti mette a confronto i contagi avvenuti all’ospedale di Alzano prima del 7 marzo e dopo quella data, quando finalmente arrivarono i più esperti medici e infermieri dell’Esercito a dare una mano ai colleghi civili travolti dal virus, insegnando loro come funzionavano i percorsi “sporchi” e “puliti” per ridurre i rischi, pure quelli materia dei Piani pandemici: la media passò da 2,3 a 0,3 infezioni al giorno all’interno del nosocomio. Ad Alzano come altrove non si facevano abbastanza tamponi perché mancavano i materiali, soprattutto i reagenti, ma la perizia della Procura di Bergamo sostiene che sarebbe stato possibile diagnosticare il Covid sottoponendo a Tac i pazienti affetti da polmoniti e sindromi respiratorie, il cui numero peraltro fin da subito era parso sospetto ai medici. Si poteva e forse si doveva fare meglio. La consulenza esclude però che la mancata chiusura dell’ospedale abbia concorso in modo determinante all’esplosione della pandemia nel territorio della Valseriana: i numeri, fuori dal Pesenti Fenaroli, erano già troppo alti. Serviva la zona rossa. Chi e a quale titolo dovrà rispondere di ritardi e omissioni è ancora presto per dirlo. Se sono stati commessi reati lo decideranno i magistrati, i pm di Bergamo stanno preparando le conclusioni dell’indagine e poi ovviamente toccherà ai giudici. Sembra di poter escludere una generale richiesta di archiviazione del fascicolo, vedremo chi dovrà difendersi dall’accusa di epidemia colposa. Crisanti non parla: “È tutto in mano ai magistrati”. E anche loro, per il momento, non parlano.

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