Il cross che arriva da sinistra lo pesca proprio nel cuore dell’are di rigore tunisina. Solo che l’attaccante in maglia blu si è avvitato un una posa piuttosto scomoda. Mentre il suo marcatore è distante poco più di un metro, lui si è ritrovato con la schiena disposta obliquamente rispetto alla linea di porta. Segnare da lì è difficile per qualsiasi attaccante, figurarsi per uno che durante tutta la sua carriera ha fatto sempre a cazzotti con il gol. Così Mitchell Duke chiude gli occhi e fa l’unica cosa che gli sembra sensata in quel momento. Impatta il pallone con un angolo superiore della fronte e la spinge all’indietro. La palla si alza, supera il guanto aperto del portiere avversario, si strofina contro la rete. Quando Mitchell Duke riapre gli occhi metà dell’Al Janoub è già esploso in un grido che mescola insieme gioia e stupore. In parti non esattamente uguali.

Perché quella punta tutta corsa ha realizzato un gol che vale una carriera intera. A 31 anni Mitchell Duke è un calciatore che ha dato un significato tutto nuovo al concetto di periferia del calcio. Gioca in J2 League, la seconda divisione giapponese. E il suo club è il Fagiano Okayama. Un nome singolare che racchiude una vicenda curiosa. Perché riprende la fiaba di Momotaro, un ragazzino venuto al mondo all’interno di una pesca, che lasciò la sua casa per andare a combattere contro delle creature mitologiche simili agli orchi insieme a un cane, una scimmia e, appunto, un fagiano. Una guerra personale che rispecchia fedelmente la battaglia che Mitchell Duke ha dovuto portare avanti per tutta la sua vita. L’attaccante australiano è nato a Liverpool, ma in Nuovo Galles, a circa 30 chilometri da Sydney. Suo padre Bill ha un’impresa idraulica che riesce a malapena a mantenere la moglie e i loro nove figli. I soldi sono un problema, così tutto viene portato avanti all’insegna dell’economia. Non sempre si tratta di un’impresa facile. Così Mitchell si ritrova a dover indossare le camicie dismesse da sua sorella maggiore. E quei pochi giocattoli che si trascinano stancamente per casa fanno la stessa fine.

Poco male, visto che il ragazzo preferisce giocare in cortile insieme ai suoi fratelli. All’inizio gioca a cricket, poi però quando compie 12 anni i genitori lo chiamano in disparte. Gli dicono che quelle attrezzature sono molto belle, ma costano anche un mucchio di quattrini. Meglio virare su qualcosa di più economico. Il calcio diventa una vocazione. Anche se tutti intorno a lui gli ripetono che non è poi molto portato per quello sport. “Ero uno che lavorava sodo – dirà tempo dopo in un’intervista – e ho mantenuto sempre questa caratteristica. Il mio modo di giocare è tutto lì: dare il 100%, grande energia, corsa fino allo sfinimento. Sentivo di avere talento, ma le opportunità erano poche. Sono sempre stato uno da far entrare a partita iniziata, uno da 10-15 minuti”. Il problema è che molti allenatori non sono disposti a concedergli le briciole. Per due volte ha fatto domanda per entrare alla Westfield Sports High School. E per due volte è stato respinto. Alla fine anche in famiglia iniziano a dubitare delle sue capacità.

“Molti allenatori non mi consideravano – spiegherà – Persino mio zio, all’epoca, quando ero in prova per la squadra giovanile del Sydney FC, diceva che non ero abbastanza bravo”. L’unico a credere in lui è suo padre Bill. Quando Mitchell va a scuola lo sveglia alle cinque di mattina. Poi gli dice di fare cento flessioni e duecento addominali. Eppure più il ragazzo ci mette impegno, più le cose non sembrano cambiare. Quando inizia a giocare con le giovanili del Central Coast Mariners si trova qualche lavoretto part time. Si sobbarca il turno di notte all’Aeroporto, consegna la posta, diviene addirittura elettricista. La storia cambia quando Graham Arnold, l’attuale cittì dei Socceroos, diviene allenatore dei Mariners. Il tecnico è il primo a credere in quell’attaccante sgraziato che in qualche strano modo può essere prezioso. Così gli fa firmare un contratto professionistico. E insieme vincono il campionato nel 2012/2013. Da quel momento Mitchell Duke vive per sdebitarsi con il suo mentore. Il resto della sua carriera lo porta lontano da casa.

Prima nel Blacktown City, poi in Giappone (Shimizu S-Pulse), Arabia Saudita (Al Taawoun), ancora Austrialia ( Western City Wanderers) e infine il Fagiano Okayama. Il suo esordio in Nazionale arriva nel 2013. Ma nessuno sembra essere troppo convinto della sue prestazioni. La seconda svolta arriva nel 2018, quando Graham Arnold viene nominato commissario tecnico dell’Australia. E si ricorda di quel suo particolare pupillo. Duke gioca con la Nazionale Olimpica, poi nelle qualificazioni al Mondiale in Qatar. “Graham Arnold avrà bisogno di giocatori in forma, pronti a dare il massimo e a mettersi in mostra – ha detto a beIN Sports prima di partire per la Coppa – Giocatori che non si tirino indietro di fronte a nessuno. Io mi sento pronto a farlo”. Ed è vero. Anche se lo scetticismo intorno a lui non si è mai placato. “Vedo i social media – ha aggiunto – e c’è gente che dice ‘come può uno della J2 essere il nostro attaccante titolare contro il Perù?’ Ma alla fine, si dimostrano piuttosto ignoranti se non sanno quanto sia realmente competitiva la J2. Sto giocando titolare, sto segnando e sto servendo assist in un campionato in cui si giocano 42 partite all’anno più le coppe, a differenza delle 26 della A-League”. E ancora: “Sento di aver meritato il mio posto in maglia verdeoro. Finché le persone giuste sono felici, il resto non mi interessa”. Contro la Francia Mitchell è stato fagocitato dalla difesa avversaria. Poi oggi, contro la Tunisia, ha segnato un gol importantissimo per l’Australia. E forse ha iniziato a sdebitasi con Graham Arnold.

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