Senza madre – Storie di figli sottratti dallo Stato (Magi Edizioni) sarà in libreria nel mese di dicembre. È stato scritto da un gruppo di attiviste e giornaliste (Clelia Delponte, Franca Giansoldati, Falvia Landolfi, Silvia Mari, Assuntina Morresi, Monica Ricci Sargentini, Nadia Somma, Paola Tavella, Emanuela Valente, Livia Zancaner) che si occupano di vittimizzazione istituzionale delle donne che denunciano violenza, e con la postfazione di Monica Lanfranco. In un “caleidoscopio eccentrico che riflette l’immagine del dolore indicibile di tante, troppe, madri e dei loro figli” scrive nella prefazione, Francesca Ceroni, magistrata della Procura Generale della Cassazione, ci sono le storie di donne che dopo aver denunciato abusi sessuali o maltrattamenti, hanno ricevuto provvedimenti di sospensione o decadenza della responsabilità genitoriale e si sono viste sottrarre i figli, rinchiusi in Casa Famiglia, con l’accusa di essere madri che vogliono demolire la figura paterna. Il problema è stato rilevato da tempo dai Centri antiviolenza DiRe, dalla Commissione Femminicidio, dal rapporto Grevio mentre il 10 novembre scorso, la Cedu – Corte europea dei diritti umani – ha condannato un tribunale italiano per aver costretto due bambini a incontrare il padre violento, nonostante ne avessero paura e fosse pericoloso.

Ci troviamo di fronte ad una grave violazione dei diritti dei bambini che si è perpetuata inizialmente sulla base della PAS, una sigla che sta per Parental Alienation Syndrome, locuzione inventata nel 1985 dal medico statunitense Richard Gardner dalle discusse tesi apologetiche della pedofilia. La Pas, oggi ha cambiato definizione: alienazione parentale, sindrome della madre malevola, sindrome della madre simbiotica, conflitto di lealtà ma indica sempre lo stesso costrutto ovvero una manipolazione materna senza che venga approfondito il motivo del rifiuto del bambino. In questo libro denuncia, ci sono le storie di madri, di padri, di figlie, figli, storie che avvengono in tutte le città, di cui nessuno sa, di cui pochi parlano. Un capitolo è dedicato a bambini e bambine uccisi da padri violenti, ai quali erano stati affidati o consegnati. Una testimonianza sconcertante, crudele, reale, e ancora inascoltata, di ordinaria ingiustizia. Qui di seguito pubblichiamo un estratto dal capitolo a firma di Nadia Somma: “La strage degli innocenti. Figlicidi, numeri, casi”.

È martedì 26 aprile 2021, i governi europei combattono il Covid-19 tentando una vaccinazione di massa, le pagine dei principali quotidiani sembrano dare spazio solo ai dati dei contagi, alla crisi economica che decimerà posti di lavoro, ai grafici dei ricoveri e ai posti letto occupati nelle terapie intensive. Va avanti così da mesi, quando dalla Spagna arriva una notizia tragica che spezza la cadenza di cifre e le polemiche dei No vax contro le dichiarazioni del generale Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario per l’emergenza Covid-19. A Tenerife, la più grande delle Canarie, un uomo è sparito con le due figlie. Si chiama Tomàs Gimeno, ha 37 anni e le due bambine Anna e Olivia hanno appena uno e sei anni. Era andato a prenderle alle cinque del pomeriggio a casa della madre, sua ex-compagna, Beatriz Zimmerman con l’accordo di riconsegnarle per l’ora di cena. Beatriz lo aspettava per le 21, ma non si è visto.

I minuti passano, diventano ore, l’attesa diventa angoscia, Beatriz, dà l’allarme dopo una telefonata che lascia presagire il peggio per le bambine. Tomàs Gimeno prima giustifica il ritardo dicendo che voleva trovare il tempo di cenare con le figlie, poi cambia tono: «Non rivedrai mai più né me né le bambine!». L’ultima volta viene visto attraverso le telecamere del molo di Santa Cruz mentre carica delle valigie su una barca e salpa. È solo. La piccola imbarcazione viene trovata qualche ora dopo senza nessuno a bordo, lasciando temere il peggio, mentre la magistratura comincia a cercare le bambine e apre un’inchiesta per sequestro di persona.

Dopo quarantacinque giorni di ricerche si scopre una verità che era già stata presagita dalla madre, dagli inquirenti, da chiunque avesse seguito la vicenda. Il 10 giugno la nave oceanografica Angeles Alvarino, scandagliando il fondo del mare al largo di Tenerife con un sonar e un robot sottomarino, il Lyrober 2000, trova un sacco legato a un’àncora alla profondità di mille metri: è il sudario di Olivia Gimèno, la sorellina maggiore. A pochi metri c’è un altro sudario zavorrato da una seconda àncora, ma è vuoto. È probabile che il piccolo corpo di Anna sia fuoriuscito dal sacco e sia stato trasportato via dalla corrente marina. L’esame autoptico accerta che Olivia è morta per edema polmonare acuto, ma sulle modalità della morte l’anatomo-patologo può solo avanzare ipotesi: annegamento, asfissia o avvelenamento.

Del regista di questo piano mostruoso, del killer di bambine Tomàs Gimeno, non si sa nulla. Le poche tracce di sangue sulla barca potrebbero far pensare a un suicidio. Ma è andata così? Le autorità spagnole dopo diverse settimane hanno diramato un mandato di cattura internazionale, perché non escludono che Gimeno sia fuggito all’estero, ma i primi di luglio le ricerche del corpo della piccola Olivia sono concluse insieme alla speranza di darle sepoltura.

Non ha saputo più nulla delle sue figlie neanche Irina Lucidi, che dal 2011 vive lo stesso calvario di Beatriz Zimmerman. Dal giorno in cui l’ex-marito Matthias Kaspar Schepps, 44 anni, andò a prendere le loro figlie, le gemelline Alessia e Livia, 6 anni, per portarle in un viaggio senza ritorno. Ancora oggi non si sa se le abbia uccise o affidate a chissà chi prima di suicidarsi.

Mancavano 10 minuti alle 23 del 3 febbraio del 2011 e nella piccola stazione di Cerignola Campagna, tre binari e due pensiline, Matthias Kaspar Schepps si getta sotto un Intercity che sta sfrecciando a 140 km orari. Il navigatore che portava con sé e che avrebbe potuto dare indicazioni sui suoi ultimi spostamenti viene recuperato in frantumi dalla polizia che ha scavato tra le pietre in mezzo ai binari. Non si sa come e perché Schepps abbia scelto Cerignola come ultima tappa di una mappa preparata accuratamente da mesi. Alcuni testimoni lo hanno visto girare per la città, fermarsi in un bar presso l’ospedale vecchio. Poi ha camminato per la campagna, si è fermato presso un pozzo, è tornato sui suoi passi portando sotto alle rotaie di un treno la verità sul destino di due bambine di sei anni che si erano affidate a lui fiduciose mentre intraprendevano quell’ultimo tortuoso viaggio.

Il 28 gennaio Schepps era andato a prendere Alice e Livia a casa della mamma a Saint Sulpice, aveva superato il confine tra Italia e Svizzera, era passato da Lione diretto a Marsiglia, aveva prelevato 7500 euro, spedito una cartolina alla moglie dove le diceva che non poteva più vivere senza di lei, poi era salito su un traghetto diretto a Propriano in Corsica. Ed è su quel traghetto che le gemelline sono state viste per l’ultima volta. Una testimone che alloggiava nella cabina accanto a quella di Schepps dirà di averle sentite piangere di notte; poi dopo quella traversata sul mare di Alessia e Livia non si saprà più nulla se non ciò che Schepps scriverà alla moglie in una delle sette lettere cariche di rancore che ha spedito durante il viaggio: «Le ho uccise, riposano in pace, non le rivedrai più».

Sono trascorsi 10 anni dalla scomparsa di Alessia e Livia e Irina Lucidi, la mamma, spera ancora di poterle riabbracciare. Non c’è vendetta più grande che si possa consumare nei confronti di una madre. Non sapere, convivere con un logorante dubbio e condurre un’esistenza scissa tra angoscia e speranza. Anche in Italia si sono consumati figlicidi per mano di padri che, secondo me, dimentichiamo più facilmente rispetto a quando sono le madri a uccidere.

Annamaria Franzoni è ancora impressa nella memoria collettiva per l’assassinio brutale del figlio Samuele Lorenzi di appena 3 anni, commesso nella villetta di Montroz il 30 gennaio del 2002, ma ben pochi ricordano Tullio Brigida condannato all’ergastolo per l’assassinio dei tre figli, Laura, Armandino e Luciana di 13, 8 e 3 anni, commesso a Civitavecchia la notte tra il 4 e il 5 gennaio del 1994.

Pochi giorni prima di oltrepassare un punto di non ritorno con un triplice figlicidio, Brigida aveva preso i figli a casa dei suoceri a Isola Sacra per trascorrere insieme a loro le vacanze di Natale. Si era accordato con Stefania Adami, la ex-moglie che si era finalmente separata da lui dopo un calvario durato 30 anni, fatto di violenze quotidiane.

Qualche anno prima aveva tentato di uccidere Stefania Adami, accoltellandola quando era incinta e per questo aveva scontato 4 anni e 10 mesi di carcere. La mancata consegna dei bambini il giorno concordato e le minacce fatte al telefono alla ex-moglie di non rivedere più i figli se non fossero tornati insieme, fanno pensare al peggio. Dopo mesi di ricerche, di puntate di Chi l’ha visto? di silenzi e depistaggi, le menzogne di Tullio Brigida si sgretolano sotto il peso di una verità che non può essere più taciuta. I corpi dei tre bambini verranno ritrovati a Cerveteri, in località Poggio del Querceto, il 20 aprile 1995.

In Italia negli ultimi 20 anni sono state varate diverse leggi per tutelare le donne vittime di violenza e di bambini o adolescenti che assistono alle violenze o le subiscono dall’ordine di allontanamento, allo stalking, alla legge sul femminicidio, al Codice Rosso eppure nonostante gli strumenti legislativi siano più che adeguati, le donne non sono credute e sono lasciate esposte alla violenza o alla vendetta che si consuma attraverso l’uccisone dei figli.

Crimini del passato che si ripetono anche oggi. Davide Paitoni il 31 dicembre del 2021 ha ucciso il figlio Daniele di appena 7 anni, quindi ha tentato di uccidere la ex che aveva chiesto la separazione. Nonostante le denunce per violenza e nonostante fosse agli arresti domiciliari per aver ferito gravemente un collega alla schiena, Davide Paitoni ha potuto stare col figlio. Spesso uomini che non tollerano di perder il controllo sulla ex dopo averlo esercitato con violenze quotidiane, soprattutto psicologiche, compiono stragi prima di suicidarsi, come ha fatto il quarantenne Alberto Accastello. Il 9 novembre del 2019, ha ucciso la moglie Barbara Gargano, i due figli gemelli, Alessandro e Aurora, di due anni e anche il cane, facendo della villetta che stava costruendo con le sue mani un sepolcro. Mentre sto scrivendo, l’ultima strage è avvenuta a Francolino di Carpiamo: Totò Staltari, prima di suicidarsi, ha ucciso nel sonno la moglie Catherine Panis e la figlia Stefania Chiarissa, 15 anni. A qualcuno aveva confidato: «Mia figlia non merita una madre così», convinto che la colpa di Catherine di non annaffiare le piante e danneggiare le spine della luce fosse da pena capitale. E chissà quale inferno domestico si sarà perpetrato tra le pareti di quella casa prima dell’atto finale. Se Medea è la figura mitologica evocata quando una madre uccide i propri figli, non esiste una figura maschile analoga o dell’immaginario che possa rappresentare l’atto mostruoso di uccidere i figli da parte del padre.

Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, Medea viene indicata come nipote di Elio e della maga Circe e come quest’ultima, è dotata di poteri magici. L’etimologia del nome significa «astuzia». Il mito è noto ai più: Medea si innamora di Giasone, approdato nella Colchide insieme agli Argonauti, alla ricerca del vello d’oro e decide di aiutarlo nell’impresa. Uccide il proprio fratello, facendolo letteralmente a pezzi, poi si imbarca sulla nave Argo e sposa l’amato. Si renderà artefice di altre nefandezze e inganni prima di commettere il più atroce dei crimini, l’uccisione dei figli avuti con Giasone, Mermero e Fare, per vendicarsi dell’uomo che le ha preferito Glauce, anch’essa colpita da feroce vendetta.

L’uccisione di un figlio per mano della madre turba, indigna, sconvolge. Come può tradire i figli colei che li dà alla luce e alla vita? L’infanticidio materno ci lascia attoniti, pensiamo che sia un atto mostruoso, contro natura tanto ci è difficile accettare la scomoda verità di una maternità che non guarisce dalla follia, dall’odio o dalla violenza. Ma quando a commettere un figlicidio è un padre? Non pesa forse una storia differente su padri e madri, di un esercizio di dominio sui corpi e sulle vite che è sempre stato precluso alle donne? Nell’antica Roma, il pater familias godeva del diritto ius vite necisque e disponeva della vita e dei corpi dei familiari, soggetti al suo dominio assoluto come gli schiavi e gli armenti.

Costantino, in epoca cristiana, abrogò questo diritto e sanzionò il figlicidio con la stessa pena prevista per il parricidio. Nel corso dei secoli sono sempre state previste attenuanti per uomini che uccidevano familiari in particolare per motivi legati all’onore: solo nel 1981 si abroga il cosiddetto delitto d’onore che prevedeva sconti di pena per chi in «stato d’ira» uccidesse il coniuge, la figlia, la sorella per motivi legati all’onore. I padri di famiglia o i fratelli hanno sempre avuto la facoltà di uccidere secondo legge o con favor di legge, o con l’indulgenza del sentimento popolare per vendicare l’orgoglio ferito. Un potere esercitato fino a oggi, in nome della gelosia, della disperazione, del raptus o della follia. Parole che i mass media impiegano per attenuare la portata di questi crimini quando a uccidere è un uomo «abbandonato» dalla compagna. (…)

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