Senza un piano per ridurre drasticamente le emissioni globali, le nostre possibilità di contenere l’aumento delle temperature a 1,5 gradi si dimezzeranno già nel 2031, secondo Global Carbon Budget. Uno degli strumenti più discussi per invertire la tendenza è quello dei crediti di carbonio o carbon credit, “un mercato finanziario su cui i Paesi più ricchi, fondazioni e aziende private comprano da quelli in via di sviluppo ‘permessi a emettere’, in cambio di azioni di compensazione come riforestazione o edilizia sostenibile”, spiega Domenico Vito, attivista e osservatore alla Cop 27 per Hubzine Italia. Se applicato correttamente, questo accordo di cooperazione potrebbe raddoppiare la riduzione delle emissioni – afferma uno studio di Enviromental Defence Fund – e abbattere i costi della transizione ecologica, soprattutto per gli Stati con economie meno forti. È però un’arma spuntata. A un trentennio dalla sua approvazione doppi conteggi della riduzione dei gas serra, scarsa attenzione ai diritti umani e piani di compensazione inefficaci ne hanno rivelato le debolezze. La sua riforma è uno dei nodi dei negoziati per il clima, sin dalla Conferenza di Parigi del 2015. A Sharm el-Sheik è iniziato il percorso per renderlo finalmente uno strumento efficace, ma i passi avanti rispetto a Glasgow sono stati pochi e, in vista della Cop 28, rimangono ancora diversi punti da chiarire.

“Il Clean Developement Mechanism è stato il primo sistema a definire un mercato di crediti di carbonio nel 1997, con il protocollo di Kyoto, il primo vero accordo internazionale sul clima”, spiega Vito. L’idea era innovativa. “Alla prima deadline nel 2012 però si è visto che stava fallendo – continua l’osservatore di Hubzine – Il mercato funziona se io, Stato che inquino un tot, collaboro con un altro Stato per recuperare le emissioni con progetti in loco. Il bilancio però non sempre era nullo, perché ciascuno degli stati coinvolti, in mancanza di un registro comune, conteggiava la riduzione derivata dalle compensazioni nelle sue strategie nazionali”. In effetti l’85% dei progetti di questo tipo usati dall’Unione Europea, secondo uno studio del 2017 della Commissione, non è riuscito a ridurre i gas serra immessi nell’atmosfera. I controlli inoltre non erano molto rigidi. Lo scambio era concordato tra i Paesi e non erano richiesti obiettivi specifici né occorreva fornire garanzie sull’efficacia.

Il programma di compensazione della California, ad esempio, ha generato tra i 20 e i 39 milioni di crediti di carbonio. Secondo l’analisi di CarbonPlan, un’organizzazione no-profit di San Francisco, questa somma non si è tradotta in una pari quantità di emissioni abbattute. Inoltre non sempre i piani previsti dalle economie più industrializzate sono andati a vantaggio dei Paesi beneficiari, spiega il Center for International Environmental Law. Uno di questi è l’impianto idroelettrico costruito ad Alto Maipo a Santiago, in Cile. Una diga ha deviato il corso dal fiume Maipo per 100 km verso la centrale, sottraendo acqua per l’uso quotidiano, l’agricoltura e la pesca alla comunità locale.

Per superare queste criticità, i Paesi delle Nazioni Unite si sono impegnati, tramite l’articolo 6 degli Accordi di Parigi – ratificato nel 2021 a Glasgow, in Scozia – a creare un sistema di scambio più equo ed efficace, dal punto di vista ambientale. Alla Cop 27 in Egitto si è iniziato a discutere per applicare concretamente le linee guida, finora rimaste solo su carta. “Tecnicamente ora stiamo andando verso un mercato di Transferable mitigation outcomes, cioè contributi di mitigazione per rimuovere dall’atmosfera i gas climalteranti – afferma Domenico Vito – Per ampliare i controlli ed evitare il doppio conteggio, si sta cercando di istituire un registro delle emissioni”, consultabile online, e pubblico. Anche se gli Stati concordano sulla necessità di un sistema di rendicontazione, non si è ancora trovato un accordo sulle modalità e le tabelle per raccogliere le informazioni e i tempi per iniziare ad utilizzarle. Rimandata anche la formazione del Supervisory body, “un organo, in seno al segretariato delle Nazioni Unite, che dovrebbe monitorare gli scambi”. I governi dovranno trovare un’intesa su nomi di tecnici ed esperti da ogni parte del mondo, in particolare dai Paesi in via di sviluppo, garantendo la parità di genere. “Dall’esperienza di Kyoto poi abbiamo capito che ci sono anche non market approach, cioè azioni di educazione ambientale, di studio o esempi da condividere che non riducono direttamente le emissioni e quindi non sono conteggiabili. Però alla fine contribuiscono alla sostenibilità. L’articolo 6 sta cercando di regolare anche questi”. Questa discussione però è rimasta un po’ a margine nell’ultima conferenza. La transizione verso il nuovo mercato appare poi complicata. Fino all’approvazione di linee guida definitive e alla migrazione dei progetti nei registri dei Transferable mitigation outcams, il cleaning development mechanism continuerà a occuparsi della valutazione di quelli presentati fino al 31 dicembre 2020.

I dubbi di governi, ambientalisti ed esperti rimangono ancora molti. Una delle principali criticità è l’equità di un simile meccanismo. Lo scambio dei crediti potrebbe infatti diventare un modo per gli Stati più ricchi di eludere le proprie responsabilità climatiche ed economiche verso quelli in via di sviluppo. Per esempio, la Svizzera – che ha firmato patti con otto nazioni – Perù, Ghana, Senegal, Georgia, Vanuatu, Dominica, Thailandia e Ucraina – fino ad ora ha fornito solo il 40% della sua quota per i 100 miliardi dell’accordo internazionale sulla finanza climatica. Ed è in ritardo rispetto sulla tabella di marcia degli Accordi di Parigi.

Spesso poi gli interventi di compensazione previsti non sono abbastanza ambiziosi o non superano di molto gli obiettivi già raggiungibili con i fondi a disposizione degli Stati coinvolti. È il caso del piano di investimento di Berna nell’efficientamento energetico degli edifici pubblici della Georgia, secondo Thomas Day, esperto di mercati del carbonio presso il NewClimate Institute di Colonia, intervistato dal New York Times. Anche in presenza di sistemi di misurazione, è possibile stimare per eccesso le emissioni mitigate. È successo fino ad oggi in Australia, denuncia il fondo d’investimento GreenCollar. Il modello utilizzato dallo Stato per stimare la quantità di anidride carbonica immagazzinata nelle foreste interessate da piani di rigenerazione, per riequilibrare i gas serra prodotti – secondo gli esperti consultati dall’azienda – non tiene conto delle caratteristiche delle aree che già hanno quantità significative di vegetazione. Coinvolgere sempre di più i privati, come ha proposto di fare l’inviato Usa per il clima John Kerry con l’Energy Transition Accelerator (un piano di compensazione che coinvolge il Bezos Earth Fund e la fondazione Rockfeller), non sembra una soluzione risolutiva, almeno in assenza di linee guida rigide per valutare i programmi di compensazione e di sviluppo nei diversi Paesi. “L’approccio deve essere cooperativo e non coloniale tra gli Stati – afferma Domenico Vito – Al punto in cui siamo arrivati con la crisi climatica, “non credo che convenga a nessuno truccare i conti”.

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