“La Cop27 di Sharm el-Sheikh deve salvaguardare gli obiettivi sul clima fissati alla Cop26 di Glasgow. Già questo sarebbe un successo, perché al G20 abbiamo visto una forte propensione a fare marcia indietro”. Nel corso di un webinar del think tank Ecco sulla conferenza Onu che sta per aprirsi, l’inviato per il clima, Alessandro Modiano, traccia un quadro degli obiettivi europei, dei principali ostacoli da superare e della posizione che l’Italia intende assumere al prossimo vertice che, dice, sarà “molto concentrato sui paesi più vulnerabili” rispetto agli effetti del cambiamento climatico. A iniziare dal nodo dei fondi per l’adattamento, quei 100 miliardi all’anno che si sarebbero dovuti mobilitare già nel 2020 e quello per le perdite e i danni (loss&damage) che ancora non c’è e su cui sono diverse le posizioni anche all’interno della stessa Unione europea. “Immagino che in Egitto si potranno fare passi avanti su questo fronte, considerando anche le pressioni internazionali” ha detto l’inviato per il clima, annunciando che il 7 novembre, alla Cop 27, sarà presentato un fondo italiano per il clima da 840 milioni all’anno per 5 anni per sostenere le politiche climatiche nei paesi in via di sviluppo.

Mitigazione, Modiano: “Si punta a non tornare indietro” – L’impegno dell’Europa, dunque, è quello di ripartire “da quanto approvato lo scorso anno sia in ambito G20, sia durante la Cop26 di Glasgow”. Per Modiano “la Cop27 sarà di transizione rispetto a quella dello scorso anno” quando sono stati fissati i target di mitigazione che “ora occorre mantenere”. Significa non superare il limite di riscaldamento di 2 gradi e, preferibilmente, non arrivare a 1,5. Un obiettivo, quest’ultimo, “per noi acquisito – ha spiegato Modiano – anche se, in realtà, in ambito G20 è stato rimesso in discussione. L’Italia e l’Ue sono ferme su questo punto e sul fatto che vi siano allineate tutte le politiche e anche gli Ndc (Nationally determined contributions)”, i contributi determinati a livello nazionale dai vari Paesi che rientrano nell’accordo di Parigi. Per questo, però, è necessario che tutti presentino Ndc aggiornati, soprattutto i grandi emettitori. L’altro punto fermo è il faro del pacchetto Ue ‘Fit for 55’, ossia il taglio delle emissioni del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Al di fuori dell’Europa “le discussioni sono ancora in corso – spiega Modiano – e c’era l’intenzione di puntare a qualche risultato prima o durante la Cop 27”. Diversi fattori, però, promettono di incidere sui negoziati. Le crisi geopolitiche hanno influito sulle politiche di contrasto al cambiamento climatico, a iniziare dal settore energetico. “E non ci sono solo gli effetti della guerra in Ucraina. Le tensioni su Taiwan, per esempio, hanno ridotto la propensione della Cina a collaborare” aggiunge.

La decarbonizzazione differenziata – “Bisogna distinguere il breve periodo dal lungo. Nel breve periodo – aggiunge – dato che la stessa Ue è stata costretta ad adottare decisioni non perfettamente in linea con gli obiettivi, ma ha anche sottolineato ai massimi livelli che ciò non implica un discostamento dalla traiettoria seguita in termini di contrasto al cambiamento climatico”. Ma se i Paesi più ricchi, davanti alle difficoltà e nel breve periodo, adottano decisioni non in linea con gli obiettivi climatici, come si può chiedere a quelli più poveri, alla Cop 27, di intraprendere un percorso di decarbonizzazione? “Il Congo è uno dei Paesi per cui si solleva questo problema, avendo una forte richiesta di fonti fossili a fronte delle esigenze sviluppo, ma credo che dobbiamo ragionare in termini di differenziazione degli strumenti”. In alcuni Paesi che contribuiscono a emettere quantità significative di Co2 “ha senso finanziare processi di decarbonizzazione, per esempio convertendo una centrale a carbone in una a gas, perché questo rappresenta comunque un allineamento agli obiettivi di Parigi. Le stesse operazioni – aggiunge l’inviato italiano per il clima – non avrebbero senso in paesi che non emettono quasi nulla e dove, invece, bisogna utilizzare strumenti diversi, come il sostegno alle rinnovabili”. C’è poi il tema della capacità di transizione: “Quando parliamo di paesi in via di sviluppo e in particolare dei più vulnerabili, dobbiamo però essere pronti a utilizzare strumenti che non possiamo utilizzare con chi è in grado, invece, di affrontare un processo di decarbonizazione”.

I finanziamenti a progetti fossili all’estero – Eppure un anno fa, a Glasgow, diversi Paesi hanno sottoscritto l’impegno a interrompere gli investimenti pubblici internazionali in progetti per l’estrazione e la produzione di combustibili fossili entro la fine del 2022. Un impegno preso, anche dall’Italia, prima dell’invasione russa. Ed è questo un punto su cui si dibatte in queste ore. Perché dieci Paesi del gruppo ‘Export Finance for Future’, stanno preparando una dichiarazione congiunta per chiedere di fermare i finanziamenti a progetti fossili in Paesi terzi. Sono Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Gran Bretagna e anche Italia che, però, avrebbe chiesto di rendere meno stringenti i limiti per i prestiti che vengono erogati dalle agenzie per le assicurazioni all’export, come l’italiana Sace. “Nell’ambito delle sue operazioni all’estero – spiega, a riguardo, Modiano – Sace sta lavorando a un documento di strategia” e secondo il quale i sostegni dovranno comunque “essere coerenti con quella decisione che, però, stabiliva già la possibilità di prevedere eccezioni dovute a circostanze particolari”. Un problema che riguarda altri Paesi che hanno firmato quella dichiarazione. Insomma “c’è un margine di eccezione che si sta cercando di utilizzare, rimanendo dentro l’obiettivo di 1,5 gradi di innalzamento della temperatura”.

Adattamento e fondo italiano per il clima – Passi significativi potrebbero essere fatti sul fronte dell’adattamento. “Ma i risultati arriveranno l’anno prossimo, alla Cop28 di Dubai” chiosa l’inviato italiano per il cambiamento climatico. A Glasgow non si era raggiunto l’accordo sull’obiettivo di finanziamento del clima post 2025, ma si era concordato di avviare un programma di lavoro di due anni per identificare le esigenze dei paesi in via di sviluppo, in vista della definizione di un obiettivo post 2025 nel 2024. L’Italia, spiega Modiano “confermerà il raddoppio della finanza per l’adattamento”, con la presentazione di un Fondo per il clima da 840 milioni all’anno per 5 anni, 800 dei quali concessionali, gli altri a fondo perduto. La sua istituzione è stata stabilita alla Cop26 di Glasgow: “È il nostro contributo al fondo da 100 miliardi all’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo a decarbonizzare previsto nell’Accordo di Parigi. I decreti attuativi sono alla Corte dei Conti, contiamo di cominciare utilizzarlo nelle prossime settimane”.

Loss and damage, pressioni da potenze del G20 – Più complicata la discussione che ruota intorno all’eventuale istituzione di uno strumento finanziario per sostenere i Paesi vulnerabili nell’affrontare le perdite e i danno dovuti ai cambiamenti climatici in maniera più sistematica (e, quindi, senza utilizzare i fondi destinati a mitigazione o adattamento, ndr). “Non è facile – spiega Modiano – perché per quanto riguarda i Paesi donatori, bisogna capire come affiancare strumenti come la Cooperazione allo Sviluppo, le risposte a eventi catastrofici, a un eventuale strumento per le perdite e i danni causati dal cambiamento climatico”. Anche all’interno dell’Ue, le posizioni non sono completamente allineate: “C’è chi è più ambizioso e chi lo è meno, ma immagino che in Egitto si potrà fare qualche passo in avanti, anche se è difficile dire quali”. Di certo la pressione è molto forte. Lo racconta l’inviato per il cambiamento climatico: “Già alla pre-Cop di Kinshasa abbiamo visto come i paesi in via di sviluppo siano sostenuti in maniera evidente da alcuni paesi del G20”.

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