Mentre Fratelli d’Italia lanciava il nome di Ignazio La Russa per la presidenza del Senato, tra quelli che si stracciavano le vesti non è mancato chi, sui social, condivideva il suo cruccio: “L’alternativa è Roberto Calderoli“. Esatto, quello che definì “orango” l’ex ministra Cecile Kyenge, che chiamava “culattoni” gli omosessuali, che agli stranieri intimava di tornare “nella giungla a parlare con le scimmie“. E chi più ne ha più ne metta, perché nel curriculum del leghista bergamasco c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Tra i padri fondatori della Lega Nord, due volte ministro e quattro vicepresidente a Palazzo Madama, i suoi trent’anni di carriera parlamentare hanno però un prima e un dopo, e forse un poi.

Chi ha buona memoria forse ricorderà l’episodio che meglio di altri rappresenta il primo, roboante Calderoli, così smargiasso da far sembrare Lorenzo Fontana, il leghista ultraconservatore neoeletto presidente della Camera, un principiante. Era il 2004 e le guardie forestali calabresi protestavano contro i tagli governativi che minacciavano i loro stipendi. Tanto che il premier Berlusconi fece marcia indietro e al posto dei tagli si inventò un commissario. “Ghe pensi mì”, tuonò il padano Calderoli, certo di essere l’uomo giusto per strigliare i forestali in Calabria. Titoli? “Vengo dalle montagne e dai boschi e credo di avere competenza”. Citando il comico Enrico Bertolino che inserì l’episodio nel suo repertorio, “è come se vi nominassero presidente della Banca d’Italia perché avete prelevato tre volte al bancomat”. Ignazio La Russa era convinto che lo avrebbero dato per disperso in Aspromonte. Invece, guarda un po’, mancò l’occasione. Dopo aver millantato di fare della Calabria un cantone svizzero e di avere un “progettino” per rilanciare il turismo regionale, da quelle parti non si fece mai vedere. Insomma, tanto fumo e niente arrosto.

Molto fumo anche nell’occasione in cui volle bruciare con la fiamma ossidrica 150 scatoloni che a suo dire contenevano “le 375 mila leggi inutili che ho abrogato da ministro della Semplificazione normativa”. A spegnere il falò acceso nel cortile di una caserma dei pompieri di Roma dovettero pensarci gli stessi Vigili del fuoco. Quanto alle sparate di Calderoli, a ridimensionare l’intervento del suo ministero bastarono i fatti. Che il giornalista Sergio Rizzo sintetizzò così: “Eliminare migliaia di leggi inutili perché “esauste”, che cioè hanno esaurito la propria funzione e quindi non sono più concretamente vigenti, anche se formalmente continuano a essere in vigore, è un’operazione di per sé inutile. Anche la legge che le elimina può quindi essere considerata una legge inutile”. Oggi Calderoli continua a rivendicare la riforma: “Ho eliminato 430 mila leggi e ho creato il sito Normattiva.it che è diventato uno strumento imprescindibile”, ha ripetuto quest’anno. Ma non tutto aveva funzionato. Infatti, tra le leggi abrogate finirono anche norme come quella che istituisce la Corte dei Conti o quella che ha abolito la pena di morte, tra le altre. Tanto che, per riparare al pasticcio, al decreto taglia-leggi seguì quello salva-leggi. Corsi e ricorsi della sua storia, che lo volle padre di una legge elettorale così squilibrata da costringere la Corte costituzionale a bocciarla. Ma a definirla “una porcata” ci pensò papà Calderoli, salvo poi specificare che furono le modifiche imposte dagli alleati di centrodestra a farne un obbrobrio. Di lì in poi, la sciagurata riforma fu il “Porcellum”, per tutti.

E poi c’è l’imbarazzo, non solo della scelta, per gli eccessi, le volgarità e gli insulti rivolti in particolare agli stranieri – “non consegneremo il futuro dei nostri figli a chi stava nella giungla a parlare con Tarzan e Cita – e alle persone omosessuali: “Da popoli di santi, eroi e navigatori rischiamo di diventare un popolo di ricchioni“. Nel 2013 fa peggio: “Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di orango“, disse alla festa della Lega Nord di Treviglio riferendosi alla ministra per l’Integrazione del governo Letta, originaria della Repubblica democratica del Congo. Gli costò una condanna a 18 mesi di carcere per diffamazione con l’aggravante razziale, confermata anche in secondo grado. Poi quest’anno la Cassazione ha annullato senza rinvio entrambe sentenze perché all’imputato non sarebbe stato riconosciuto il legittimo impedimento a comparire in udienza per motivi di salute. Il commento di Calderoli? “Un po’ di amaro in bocca perché quattro anni fa avrei potuto essere nominato presidente del Senato e i grillini misero il veto perché avevo quella condanna, su una vicenda per la quale mi ero scusato e che avevo ammesso essere stata un brutto episodio”.

Stavolta rischiava d’essere la volta buona: per la seconda carica dello Stato la Lega ha fatto il suo nome. Ma più di qualunque condanna hanno potuto i voti di Fratelli d’Italia e il peso di un veterano della destra come La Russa. Nel frattempo l’imprevedibile Calderoli aveva giurato d’essere un uomo diverso. “A trent’anni vuoi spaccare il mondo. A sessanta prevalgono esperienza e saggezza”, ha assicurato in una recente intervista al Corriere dove spiega di aver “recuperato la fede e riscoperto Dio e i veri valori della vita”. A cambiarlo sarebbe stata soprattutto la malattia scoperta nel 2012, un tumore che lo ha costretto a una lunga lotta attraverso numerose operazioni. “Non rifarei più molte cose“, ha ammesso nell’intervista, in particolare ricordando la maglietta con la vignetta su Maometto che indossò durante una diretta del Tg1 del 2006, e le conseguenti dimissioni da ministro delle Riforme del terzo governo Berlusconi. Ma guai a dargli del razzista o dell’omofobo. Piuttosto, rivendica le qualità affinate in trent’anni di Parlamento: “Con le mie trovate, frutto di studi faticosi e approfonditi, ho varato leggi importanti e contribuito a mandare a casa governi. Con i miei trabocchetti ho fatto cadere il governo Prodi-D’Alema e ho bloccato il ddl Zan”. Come dimenticare gli 82 milioni di emendamenti contro il ddl Boschi generati attraverso un algoritmo e rispediti al mittente?

Ma nell’intervista rilasciata al Corsera manca qualcosa e non è di poco conto. Reduce da un primo matrimonio celebrato con sedicente rito celtico, quello del 1998 con la scrittrice Sabina Negri, benedetto dal Vapensiero eseguito al pianoforte da Umberto Bossi, Calderoli si è poi risposato nel 2015 con la leghista Gianna Gancia, allora assessora regionale in Piemonte, già presidente della Provincia di Cuneo. Il cambiamento è radicale fin dalla cerimonia: con regolare rito civile, sobria e priva di politici. Assente anche il leader Matteo Salvini. Perché la signora Gancia in Calderoli, erede della nota famiglia dello Spumante e oggi europarlamentare per la Lega, non è un’entusiasta del nuovo corso del partito, e per gli auguri social al Senatùr continua a scrivere “Capo”. Ok, nemmeno il marito si definisce un salviniano. Ma quando si è trattato di portare a casa il Recovery Fund, la Gancia twittò sbottando contro il leader del suo partito e Giorgia Meloni. “Sin dall’inizio sono stata l’unica all’interno del partito di Salvini (quella che un tempo era la Lega) a sostenere convintamente nel centrodestra la necessità di un accordo ambizioso sul RecoveryFund. E’ stato fatto un grande lavoro diplomatico da parte dell’Italia”, riconobbe al governo Conte II. E poi: “Cosa diranno ora Matteo e la Giorgia nazionale? Che spieghino agli italiani da dove avrebbero preso i soldi, loro”. Il tweet rimase online per poco, ma tanto bastò a farlo riprendere dai quotidiani.

Vai a sapere, ora che il marito ha ottenuto il ministero degli Affari Regionali nel governo di Meloni, cosa dirà la pasionaria consorte. “Personalmente, sono anni che, internamente e nel rispetto delle diverse sensibilità del partito, faccio leva affinché emerga la nostra anima moderata, liberale, europeista e federalista“, si legge in un’intervista a Open dell’anno scorso. Di più, sentite cosa dice sull’immigrazione: “No, non sono i porti chiusi la strada. Quando hai gente che muore di fame e di sete, l’Europa deve intervenire per risolvere all’origine queste problematiche”. Tra i pochi tweet, lo scorso 14 ottobre scrive un apprezzamento per il discorso di Liliana Segre, “essenza stessa della politica, grazie”. Nulla per l’elezione alla Camera di Fontana. Che probabilmente non apprezzerebbe chi, come la Gancia, pensa che “la Lega dovrà staccarsi da Identità e democrazia“, il gruppo delle destre nazionaliste al Parlamento europeo di cui fa parte il partito di Salvini. Che, guarda un po’, “deve imparare, su questioni delicate e complesse come la politica estera, a sentire più campane e soprattutto quelle di chi ha più professionalità specifica. Quando ci si muove in questo ambito le scelte non sempre possono essere dettate dalla ricerca del consenso“. Parola della moglie? No, di Roberto Calderoli. E chissà che non sia questo l’inizio del poi.

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