Sono ore caratterizzate da un certo nervosismo negli ambienti finanziari. Tra poche ore, all’apertura dei mercati, si capirà un po’ meglio se e quanto questi timori siano fondati o eccessivi, come spesso accade. Certo è che sui social si rincorrono voci secondo cui una delle principali banche di investimento internazionali sarebbe sull’orlo della bancarotta. Il principale indiziato è la banca elvetica Credit Suisse che da tempo naviga in acque agitate ma qualcuno azzarda anche il nome di Deutsche Bank, banca di cui, a dire il vero, si preannuncia periodicamente il fallimento da una decina d’anni. Venerdì il numero uno della banca svizzera Ulrich Koerner ha ammesso che l’istituto si trova “in una fase critica” ma ha anche rassicurato sulla solidità patrimoniale della banca e sulla disponibilità di liquidità. Quando su questo punto si sente il bisogno di rassicurare non è un bel segnale. Si dice che i dirigenti di Credit Suisse abbiano trascorso il fine settimana al telefono per rassicurare clienti, controparti e investitori su capitale e liquidità, nonché per ribadire che i piani di ristrutturazione sono in corso.

Da inizio anno il valore delle azioni di Credit Suisse si è più che dimezzato, con un calo del 23% solo nelle ultime settimane. Negli ultimi giorni sono invece schizzati al rialzo, sui valori più alti dal 2009, i prezzi dei Credit default swap (Cds), che sono prodotti finanziari che in sostanza consentono di assicurarsi contro il fallimento di una società o di uno stato. Tuttavia questi movimenti al rialzo possono riflettere scommesse speculative oltre che l’effettivo livello di rischio. Non però su livelli da imminente bancarotta. Alcuni analisti notano come il cosiddetto Price to book ratio, ossia il rapporto tra il valore di borsa di una società e il valore della stessa riportato nei bilanci, sia ormai allo 0,22%, uno dei valori più bassi in Europa. Nei giorni scorsi la banca ha fatto sapere di stare valutando la cessione di alcune attività. Non ha aiutato la decisione della Svizzera di abbandonare la sua storica neutralità, fattore che avrebbe provocato una fuoriuscita di capitali esteri dalle principali banche del paese.

Getta acqua sul fuoco Boaz Weinstein il fondatore dell’hedge fund Saba Capital Management e famoso trader di Credit default swap, che ricorda come nel 2011 i Cds su Morgan Stanley avessero valori doppi rispetto a quelli che presenta oggi Credit Suisse.

Nei primi 6 mesi del 2022 la banca ha accusato una perdita di 1,6 miliardi di franchi (1,1 miliardi di euro) a fronte del rosso da 273 milioni dello stesso periodo del 2021. A (quasi) tutto si può mettere una pezza, specie con l’aiuto della banca centrale, in questo caso svizzera. In generale, in assenza si un aiuto esterno, il rischio più esiziale e quello che può far rapidamente precipitare le cose è quello di una carenza di liquidità. Liquidity kills fast dicono gli analisti. La banca dispone di 160 miliardi di liquidità e 40 miliardi di capitale ma ha anche un’ esposizione “a leva” (ossia investimenti con soldi presi in prestito) da 900 miliardi. Qualora i finanziatori iniziassero a chiedere maggiori garanzie su questi prestiti si innescherebbe un pericoloso circolo vizioso. Pochi giorni fa l’agenzia Reuters ha scritto che la banca era alla ricerca di investitori disposti a sottoscrivere una nuova ricapitalizzazione, valutando contestualmente l’ipotesi di cedere la sua banca d’investimento negli Stati Uniti. L’istituto svizzero ha però smentito entrambe le notizie. Lo scorso aprile la banca è stata costretta a raccogliere 1,7 miliardi dagli investitori mentre cercava di ricostruire il proprio capitale dopo i crack delle partecipate Archegos Capital e Greensill Capital.

Segnali, forse più preoccupanti, arrivano intanto dal mercato valutario come segnala su Twitter Robin Brooks, il capo economista dell’associazione internazionale delle società finanziarie (Iif)

Cosa significa? In sostanza che sui mercati ci sarà una grande fame di dollari e che le società europee sono disposte a pagare interessi molto alti per scambiare euro in valuta americana. Una situazione che si era già verificata durante la crisi finanziaria del 2008. In temi normali il differenziale è intorno allo zero.

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