Anche se dal 2018 la legge impone di utilizzare solo shopper biodegradabili e compostabili in alternativa ai sacchetti riutilizzabili, tuttora su 10 buste in circolazione quattro sono in plastica tradizionale, quindi non a norma. E spesso queste ultime vengono fabbricate negli stessi identici stabilimenti dove si producono quelle biodegradabili e compostabili. Lo denuncia la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella recente relazione sulle borse di plastica monouso. “Da quando è entrata in vigore la legge che vieta quelle non biodegradabili si è dovuto fare i conti con la loro produzione illegale”, spiega il presidente della commissione Ecomafie, Stefano Vignaroli, che sottolinea come “questo fenomeno, oltre a permettere guadagni illeciti, è sfruttato dalla criminalità organizzata per il controllo del territorio sotto forma anche di pizzo”.

Nel corso degli ultimi anni “l’impegno continuo delle forze dell’ordine ha garantito il consolidarsi di un panorama di legalità che ha contribuito a contrastare il fenomeno della produzione e distribuzione di shopper illegali” spiega la Commissione, ma i dati mostrano che c’è ancora molto da fare. Tra l’altro, si tratta di una perdita in un sistema che funziona, in quanto gli shopper non hanno gli stessi problemi di degradazione negli impianti riscontrati per la plastica rigida e raccontati da Greenpeace nell’indagine pubblicata da ilfattoquotidiano.it per la campagna Carrelli di plastica.

La quota di shopper non a norma – Come più volte evidenziato dalle associazioni di categoria, inoltre, il divieto delle buste di plastica tradizionale ha avuto come effetto la riduzione, in generale, di tutti i sacchetti non riutilizzabili. Basti pensare che in Italia, nel 2007, si consumavano oltre 200mila tonnellate di borse, per circa 30 miliardi di sacchetti in plastica monouso. Roma è stata tra i primi membri dell’Unione europea a mettere al bando il sacchetto della spesa. Una prima normativa specifica finalizzata a ridurne il consumo è stata introdotta nel 2007 per poi essere perfezionata nel 2012 e nel 2017 con la legge 123. Stando ai dati contenuti del Rapporto sui rifiuti urbani 2021 di Ispra, nel 2020 sono state immesse sul mercato borse in plastica per 88mila tonnellate, in lieve aumento (dell’1,6%) rispetto al 2019, dunque circa 1.400 tonnellate in più, ma oltre 110mila in meno se si guarda al 2007. Le borse di plastica più diffuse sono quelle biodegradabili e compostabili (78,3% del totale, circa 68mila tonnellate), mentre le altre borse di plastica coprono una percentuale del 21,7% (circa 19 mila tonnellate). Tra quelle ‘non a norma’, però, rientrano anche quelle in plastica tradizionale che vengono fatte passare per compost-bio. Lo stesso Conai, di fatto, nel programma generale di prevenzione dichiara che è ancora diffusa sul territorio nazionale la fornitura di sacchetti non a norma, in particolare presso gli esercizi commerciali al dettaglio e i mercati rionali ed ambulanti.

Sacchetti fuori legge anche nei laboratori autorizzati – In questo contesto la Commissione Ecomafie ha avviato un’inchiesta, portata avanti anche attraverso acquisizioni di documenti, audizioni, missioni e protocolli d’intesa con carabinieri, polizia locale, Assobioplastiche e altri operatori del settore. Nel corso dell’indagine è emerso che la produzione delle plastiche non a norma spesso avviene negli stessi siti produttivi dove vengono prodotte quelle biodegradabili e compostabili e non solo nei laboratori clandestini, come ci si potrebbe aspettare. Questo con l’obiettivo di occupare “una porzione di mercato ‘diversa’, generando così un surplus di profitti” spiega la Commissione Ecomafie nella relazione. Anche perché la materia prima delle ‘buste tradizionali’ è a basso costo, sensibilmente inferiore a quello dei sacchetti a norma. Va ricordato che per chi viola o elude la legge sulle borse in plastica è prevista una sanzione amministrativa che va dai 2.500 a 25mila euro e che può salire fino a 100mila euro per quantità ingenti di borse di plastica o un valore della merce superiore al 10% del fatturato del trasgressore, nonché nel caso siano utilizzate diciture o altri segni elusivi degli obblighi previsti dalla legge. Chi applica alle buste una etichetta con la scritta ‘biodegradabile-compostabile’ non corrispondente alle vere caratteristiche del materiale con cui è realizzata è perseguibile anche penalmente, incorrendo nel reato di frode nell’esercizio del commercio. Che, però, solo raramente si arriva a contestare. Nella maggior parte dei casi tutto finisce al massimo con una sanzione amministrativa.

Il sopralluogo nell’azienda di Caivano – Un caso significativo è quello emerso in seguito a uno dei sopralluoghi eseguiti dalle forze dell’ordine e dalla stessa commissione che, ad aprile 2022, hanno condotto un controllo presso una ditta del comune di Caivano (Napoli), specializzata nella fabbricazione e nella commercializzazione di imballaggi in materie plastiche e, in particolare, di buste. Gli shopper illegali sono stati sequestrati ed è scattata una sanzione di 5mila euro. Il titolare dell’azienda ha ammesso la produzione di una parte residuale di shopper non conformi alla normativa, frutto della richiesta del mercato. “A conferma che le fabbriche che producono shopper vietati dalla legge – commenta la Commissione Ecomafie – si nascondono, nella maggior parte dei casi, dietro un’attività lecita, quindi provvista di tutte le autorizzazioni necessarie e fiscalmente in regola”. Così si riducono i rischi.

Sanzioni e denunce non scoraggiano il mercato parallelo – Anche per questo le sanzioni non bastano, da sole, a ridurre la dimensione del fenomeno. Oltre al fatto che non si tratta solo del guadagno ottenuto con la vendita di questi shopper, ma ci sono anche “ulteriori potenziali correlazioni con attività illecite, quali il controllo del territorio, in particolare le aree mercatali”. Tutti i commercianti acquistano gli shopper da persone che, sistematicamente, si presentano in modo anonimo nel loro negozio – racconta la relazione – con mezzi propri, divisi per quartiere, senza rilasciare ricevute di pagamento, fatture o altri documenti fiscalmente validi anche ai fini della tracciabilità degli shopper. Circostanze, scrive la Commissione, che lasciano supporre l’esistenza di un sistema di persone “legate da un vincolo associativo che sfocia in un’organizzazione criminale dedita al traffico illecito”. Secondo Gianfranco Amendola, magistrato ed esperto in normativa ambientale, “quanto raccontato dalla Commissione Ecomafie conferma che il settore delle plastiche costituisce un terreno particolarmente appetibile dalla criminalità organizzata e dimostra quanto ci sia ancora da fare sul fronte dei controlli, per via delle difficoltà di accertamento e perché la materia impone una rilevante specializzazione” mentre non sempre si riscontra una formazione tecnico-operativa per l’applicazione dei requisiti previsti dalla normativa di settore.

Ricostruire la filiera tra difficoltà e ostacoli – E poi le sanzioni colpiscono il commercio della busta ‘illecita’, senza interrompere la filiera di approvvigionamento dal produttore al commerciante al dettaglio. Per questo si è sempre più cercato di ricostruire l’intera filiera, che dalla vendita risalga alla distribuzione fino alla produzione, nazionale o estera. Non senza difficoltà in tema di competenze sui controlli: il commercio al dettaglio avviene normalmente in un territorio comunale, mentre il distributore all’ingrosso si trova in un altro Comune, se non in un’altra Provincia o Regione. E anche gli stabilimenti produttivi sono spesso distanti dal luogo della vendita. Tutto questo, però, ha conseguenze nel mancato trattamento della frazione organica (smaltita come rifiuto nelle buste) “inesorabilmente contaminata dalla plastica non compostabile e destinata in discarica o, in alternativa, a recupero energetico, con conseguente aggravio di costi di gestione, compresi i costi di trasporto di questi ulteriori rifiuti”.

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