È una storia di progressi e passi indietro quella dei diritti delle donne in Afghanistan. Dal 15 agosto 2021, il presidente Ashraf Ghani e la coalizione occidentale hanno lasciato il Paese, con i Taliban che hanno di nuovo preso il controllo di Kabul dando vita a un nuovo governo costituito esclusivamente da uomini. Un governo che, nonostante le speranze occidentali su una possibile svolta ‘pragmatica’, ha dimostrato di essere rimasto legato all’approccio conservatore e radicale che lo aveva fatto conoscere al mondo alla fine degli Anni 90.

Nonostante i tentativi di rassicurazione da parte dei Taliban, si è assistito a severe restrizioni nei confronti delle donne, in particolar modo riguardo al loro accesso all’educazione e al lavoro. In alcune aree del Paese le donne sono totalmente tenute fuori dal mondo del lavoro. Per quanto riguarda l’accesso allo studio, invece, nei gradi più bassi le bambine sono segregate in classi unisex, mentre ai livelli più alti e nelle università non viene loro permesso di accedere ai corsi di studio.

Con le restrizioni, tornano anche le imposizioni sull’abbigliamento. Nel maggio 2022, il nuovo ministero per la propaganda della Virtù e la prevenzione del Vizio ha presentato un decreto con il quale si obbligano le donne a coprire interamente il proprio corpo quando si è in pubblico, oltre al divieto di viaggiare senza un accompagnatore della famiglia a una distanza maggiore di 70 chilometri da casa.

Ilfattoquotidiano.it ha raccolto le testimonianze di donne afghane che raccontano come la loro vita è cambiata con il collasso dell’ultimo governo Ghani e il ritorno degli Studenti coranici al potere nel Paese.

Samiha Sattari (nome di fantasia), 28 anni, insegnante di Kabul
Non sono mai stata una di quelle persone che aveva difficoltà a comprendere l’importanza delle cose che la circondavano fino a quando non le perdeva. Ogni giorno ero grata di potermi alzare e andare al lavoro, così come di potermi sedere con i miei migliori amici nel giardino del nostro caffè preferito bevendo tè. Lo stesso ogni volta che tornavo a casa e la mia famiglia si riuniva intorno a una teiera con i bicchieri in mano e mia nipote correva da me con i suoi piccoli piedi e grandi sorrisi. Avendo passato un’infanzia da rifugiata, ho sempre avuto difficoltà a chiamare un posto ‘casa’, ma Kabul, pur con tutte le sue bruttezze e il suo caos, è ciò che più si è avvicinato a questo concetto per me.

Il fatto che una donna potesse vestirsi o comportarsi nel modo che preferiva ha reso questa città a me molto cara. C’erano molte cose che una donna poteva fare, anche se in poche se lo permettevano, ma solo sapere di poterlo fare era bello. Quando i Taliban hanno preso il potere, in molti non sapevano cosa doversi aspettare, nemmeno io. Ma in pochi giorni tutto ciò che ho sempre avuto e conosciuto della mia vita è sparito. La domanda che rimbombava nella mia testa era se sarei mai più entrata in una classe per insegnare alle ragazze. Tutto ciò che di questa città mi era più caro, il caos, la varietà, le diversità, era sparito. I miei amici se ne erano andati e quelli che erano rimasti erano disorientati tanto quanto me.

Per questo, per tre volte ho detto addio ai miei amici nell’intento di lasciare il Paese e per tre volte non ci sono riuscita. Non ho mai più messo piede in un’aula con le mie ragazze. Ho provato a cambiare città per continuare a insegnare ma è stato impossibile. Ho dovuto fingermi straniera per prendere un aereo nel mio Paese, ho dovuto coprirmi il viso per ridurre i rischi di salire su un taxi da sola, ho visto mio fratello mantenere la calma con un 16enne armato che stava prendendo a calci la sua auto solo perché mi aveva fatta sedere sul sedile del passeggero, ho dovuto mentire a 300 ragazze perché non ho avuto il coraggio di dire loro che non andranno mai più a scuola. Queste 300 ragazze sono solo un numero per la maggior parte delle persone, ma conosco ognuna di loro, conosco i loro sogni, conosco le loro speranze, conosco le loro lotte e non posso fare nulla per loro. Ho dovuto vedere i miei amici lasciare il Paese e tutto ciò che potevo fare era sostenerli. Ho visto famiglie divise dalla distanza senza alcuna speranza di riunirsi, una di quelle famiglie è la mia. Vedo una città, un tempo così vivace, ora piena di donne vestite solo di nero.

Ci sono ancora giorni in cui nutro la speranza che questo possa presto diventare il passato, ma altri in cui mi sento in trappola e non riesco a vedere oltre il posto di blocco di un Taliban. Vedo persone accalcate intorno a una panetteria nella speranza di un pezzo di pane o bambini piccoli derubati della loro infanzia, con le mani penzolanti dal finestrino di un’auto implorando una moneta. Vedo edifici saltare in aria solo perché le persone che vi abitavano avevano visioni religiose diverse da quelle di chi controlla la città. E in questi giorni non so come sentirmi.

Roya Adel, 26 anni, giornalista, Spagna
I Taliban erano entrati a Kabul e tutti cercavano di scappare. “Andiamo a casa”, disse un mio collega con voce tremante. Era una domenica mattina, c’era un’aria di paura e preoccupazione nel nostro ufficio. Le mie coinquiline mi hanno chiamata e anche loro si sono sentite minacciate. Una di loro era una docente universitaria che aveva interrotto bruscamente la sua lezione, l’altra lavorava per il governo ed è stata costretta a lasciare il suo ufficio e tornare a casa a piedi. A quel punto, il presidente Ashraf Ghani se n’era andato e il mio cuore soffriva nel vedere il mio Paese cambiare proprio davanti ai miei occhi. Ho avuto degli incubi quella notte. Non riuscivo a dormire o impedire alle mie lacrime di cadere, piangendo per ogni donna che si trovava nella mia stessa situazione. Sono una professionista ben istruita, ho uno stile di vita che va contro le opinioni estreme dei Taliban. Quando il governo dell’Afghanistan è crollato, anche le speranze di milioni di persone per un futuro migliore sono crollate.

Ero molto giovane quando i Taliban salirono al potere negli Anni 90. Vivevamo a Ghazni, a circa 130 chilometri da Kabul, e la mia famiglia gestiva un negozio di alimentari. Conducevamo una vita tranquilla, ma i combattenti hanno picchiato e arrestato mio padre due volte, probabilmente perché facciamo parte della minoranza sciita. Ricordo di averlo visitato in prigione con mio zio. Un’altra volta hanno picchiato mia madre proprio davanti a me mentre eravamo fuori a fare la spesa, tutto perché usciva in pubblico senza un uomo che l’accompagnasse. Dopo la cacciata dei Taliban nel 2001, ho iniziato a credere che le cose sarebbero migliorate. Sono andata all’università, ho vissuto da sola a Kabul e ho aiutato la mia famiglia. Vedere i Taliban tornare al potere e i diritti delle donne minacciati ancora una volta mi ha fatto capire che tutto ciò che avevo ottenuto negli ultimi 20 anni sarebbe scomparso. Casa è un posto in cui fuggire, non da cui fuggire, ma sapevo di non avere altra scelta che lasciarla.

Amena Karimyan, 25 anni, astronoma, Germania
Spesso mi sento più vicina alle stelle che alle persone. Ed essendo l’unica astronoma donna dell’Afghanistan è stato difficile sin dall’inizio. Gli ostacoli ci sono sempre stati, a partire dal fatto che non c’è un solo istituto astronomico o astrofisico in Afghanistan. Ho deciso di studiare ingegneria, un campo insolito per le donne in Afghanistan. Facevo vari lavori per finanziare i miei studi, perché non ho mai odiato nulla tanto quanto odio la dipendenza e i limiti. Poi i Taliban hanno ripreso il potere e questa mia caratteristica è diventato il principale pericolo per la mia vita.

Ne avevo abbastanza anche prima dell’ascesa al potere dei Taliban. Scegliendo un corso tecnico all’università, mi veniva sempre detto che gli uomini sarebbero stati più bravi. Sono stata oggetto di insulti, scherno e disprezzo quotidianamente e persino attacchi. Mi sono rifiutata di indossare il burqa e ho ridotto persino l’obbligatorio chador all’essenziale. L’altra mia passione è la letteratura. Recito poesie, scrivo e leggo i miei lavori in pubblico, tutte passioni che mi sono costate grandi sforzi qui in Afghanistan. Nel 2017 ho completato ingegneria civile. Mi interessavano il funzionamento delle città, l’uso delle risorse, le questioni economiche e le soluzioni concrete ai problemi. Ho lavorato a un progetto infrastrutturale fino a luglio 2021 presso il municipio di Herat. Volevo aiutare la mia città a svilupparsi, ad affrontare i suoi tanti problemi. Nel 2018 ho fondato la mia organizzazione Kayhana con la quale per la prima volta ho stabilito contatti internazionali e ho ottenuto l’accesso a una rete mondiale di istituzioni astronomiche. E questo mi ha garantito una presenza sui media locali e quindi la rabbia dei Taliban.

Improvvisamente, tutto inizia a crollare. I Taliban stavano conquistando una città dopo l’altra, la paura degli orrori del loro regime pervade ogni parola, ogni movimento, ogni sguardo. “Non torneremo indietro di due decenni, questa volta è un secolo intero”. L’Afghanistan, il Paese in cui ho costruito la mia esistenza con tanta fatica, dove ho fatto progetti, in cui speravo che il mio lavoro avrebbe portato un miglioramento stava cadendo a pezzi.

Cadde anche Herat, con i suoi 630mila abitanti. Sono stata nascosta per settimane, non osavo quasi uscire di casa. Poi mi sono unita a un piccolo gruppo di altre persone che stavano lasciando la città in fretta e furia. La mia famiglia era ancora a Herat, i miei amici, i miei libri, i miei appunti, la mia casa. Mi sono lasciata tutto alle spalle da un giorno all’altro per fuggire a Kabul. Ho anche cancellato i miei account sui social media. Sono partita per Kabul senza nemmeno salutare mio padre. Se rivedrò lui o qualcun altro della mia famiglia è scritto nelle stelle.

Il 15 agosto 2021 i talebani hanno preso anche la capitale. Mentre stavo vivendo quei momenti devastanti, ho iniziato a scrivere queste righe, la sera del 19 agosto 2021: “Se non esco viva di qui, per favore racconta al mondo intero questa storia. Dì loro che volevo fare dell’Afghanistan un luogo di conoscenza e civiltà. Dì al mondo che c’erano molte persone come me qui, ma la nostra vita è stata breve e anche in quei pochi anni siamo state tradite. Dì al mondo che l’Afghanistan ha così tante brave persone, ma è stato venduto a una manciata di traditori”. Con il rapido deterioramento della situazione in Afghanistan, mi sono resa conto che dovevo cercare di lasciare l’Afghanistan.

Geeta Saeed, 39 anni, attivista per i diritti delle donne e scrittrice, Spagna
Sono una vittima della guerra in Afghanistan che mi è costata molti sacrifici: la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia giovinezza, la mia educazione e persino mio marito sono stati tutti sacrificati. Lui e i suoi sei colleghi sono stati brutalmente assassinati nel 2013, mentre andavano al lavoro. Prima di quell’episodio, tutte le mie attività si limitavano all’essere una casalinga. La prima volta che i Taliban hanno preso il potere ho dovuto sposarmi minorenne, ma nonostante ciò, andando avanti ho avuto una vita normale, ero felice. Fino a quando la presenza talebana nelle aree settentrionali del Paese non è tornata, la loro barbarie e i loro crimini si sono impossessati della vita delle persone.

Dopo l’uccisione di mio marito ho dovuto lasciare la mia casa. Io con due dei miei figli sono tornata dai miei genitori. Io, madre vedova, ho dovuto affrontare molte sfide all’interno della società. Ho iniziato a occuparmi dell’istruzione dei miei figli e dei miei studi che erano rimasti incompiuti, insieme al lavoro che stavo facendo. La nostra vita stava tornando in carreggiata, molto lentamente. Stavamo sostituendo nuova felicità alle ferite del passato.

La scrittura di poesie è iniziata nel 2006 e, dopo aver perso mio marito e aver affrontato molte difficoltà, la mia iniziativa poetica si è rafforzata. Quella forza mi ha permesso di entrare nella società, vedere la vita delle donne e dei bambini che condividevano la mia stessa sorte. Tutto ciò mi ha spinto a usare la mia penna ed essere la voce di tutti coloro che non hanno nessuno che li guidi o li sostenga. Quelle donne che sono condannate dalla società e dalla cultura come morte ambulanti, che non hanno diritti, non hanno voce.

Poi ho fatto un altro passo e partecipato alle elezioni provinciali. Infine mi sono trasferita a Kabul e ho lavorato con molte organizzazioni nazionali e internazionali. Il 15 agosto 2021 mi sono resa conto che l’Afghanistan non è mai stato un posto per brave persone, per persone istruite, per persone libere e non lo sarà mai. Ho deciso di lasciare il Paese e sono venuta in Spagna con i miei figli.

Shamsia Mohammadi (nome di fantasia), 26, Project Manager, Kabul
Come donna istruita non ho diritti nell’Emirato Islamico. Nemmeno il diritto di scegliere cosa indossare, come camminare, come parlare e come comportarmi. Nel mio lavoro ho avuto esperienze orribili dopo il crollo del Paese. Ho visto famiglie costrette a vendere i propri figli per garantire cibo agli altri, le ho viste di persona. Ho aiutato una famiglia a evitare di farlo, ma ce ne sono altre migliaia lasciate sole. Dopo l’arrivo dei Taliban, nei primi giorni, ho sentito che le persone nascondevano tutte le loro figlie perché, come raccontava anche mia nonna, quando salirono al potere per la prima volta presero tutte le ragazze che volevano, cercandole casa per casa.

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