Il 25 giugno 1678 Elena Lucrezia Cornaro Piscopia si laurea in filosofia all’Università di Padova. È la prima donna laureata al mondo. Dopo Elena servirà attendere più di cinquant’anni perché un’altra donna possa laurearsi: Laura Bassi arriverà a questo traguardo a Bologna nel 1732, dove otterrà anche titolo dottorale e libera docenza. Un mondo lontano, dove condizione di genere ed estrazione sociale tracciavano confini sostanzialmente invalicabili per l’accesso al mondo intellettuale. Un simbolo, oggi, attraverso cui riflettere sulla condizione contemporanea delle donne nelle università. Ilfattoquotidiano.it ha chiesto il parere di Carlotta Sorba, professoressa ordinaria all’Università di Padova, membro del Consiglio direttivo del Centro di Ateneo “Elena Cornaro. Saperi, culture e politiche di genere”, e di Eleonora Carinci, ricercatrice presso l’Università di Oslo, recentemente autrice di un capitolo su Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, nel testo a cura di Andrea Martini e Carlotta Sorba, L’università delle donne: Accademiche e studentesse dal Seicento a oggi (Donzelli, 2021).

Storicamente quali sono stati i passaggi dirimenti nel percorso di maggior accessibilità femminile al mondo intellettuale?

Eleonora Carinci: Parlando più in generale del mondo intellettuale e non strettamente di quello accademico, il Rinascimento ha senz’altro segnato un passaggio importante. In questo momento la maggior fruibilità della letteratura, grazie ai caratteri mobili e alla stampa, ha consentito una maggiore accessibilità delle risorse. In quegli anni le donne iniziano anche a scrivere, a pubblicare, spesso parlando proprio dell’importanza di una maggior estensione dell’educazione femminile. Figure come Elena Cornaro Piscopia erano infatti un’eccezione forte rispetto al modello normativo: da un lato confermavano questa distanza con la loro “eccezionalità”, dall’altro aprivano una breccia per un ragionamento sul rapporto tra le donne e il mondo intellettuale.

Carlotta Sorba: Dopo un primo momento di apertura alle donne all’interno del mondo intellettuale durante il Rinascimento e fino al 1700, è interessante notare la cesura successiva. Infatti, a partire dal tardo 700, in parallelo all’età dell’illuminismo e delle grandi rivoluzioni, si è aperta la stagione della cittadinanza ma, nello specifico, della cittadinanza maschile. Questo passaggio storico ha determinato la costruzione di una rigida separazione tra una sfera pubblica maschile e una sfera privata, domestica, femminile. Bisognerà poi arrivare al 1800 inoltrato per una graduale apertura dell’istruzione superiore alle donne, all’interno di un percorso per niente lineare. In Italia, ad esempio, la prima inchiesta ministeriale relativa al numero di donne iscritte all’università ne registrava poco più di 200, ben meno degli iscritti uomini. Tuttavia, ad oggi la tendenza si è invertita e nel 1990-1991, per la prima volta si è registrata una maggior partecipazione numerica femminile e, inoltre, le donne sembrano avere migliori risultati accademici. Restano però enormi disparità di genere nell’accessibilità delle maggiori posizioni di carriera.

Dalla relazione redatta dal Consiglio universitario nazionale (Cun) nel dicembre 2020 è emersa una forte disparità di genere all’interno degli atenei, specialmente in relazione ad alcuni temi come la precarietà e significative forme di segregazione orizzontale (le donne sembrano più presenti solo in alcuni settori) e verticale (le donne ricoprono raramente ruoli apicali nelle gerarchie universitarie). Oggi a che punto siamo? Servono politiche attive per promuovere una maggiore parità di genere?

EC: Ovviamente c’è ancora moltissimo da fare. Rispetto ad anni precedenti è percepibile un cambio di passo, legato alla maggiore evidenza del problema. Tuttavia, spesso mancano le infrastrutture utili, così come una seria redistribuzione del lavoro di cura tra i generi. Ritengo serva agire in termini di politiche attive ma, soprattutto, credo sia davvero centrale un lavoro lungo e parallelo per una trasformazione dell’immaginario femminile dal basso, con l’obiettivo di decostruire modelli socialmente costruiti ma anche individualmente interiorizzati dalle stesse donne.

CS: Personalmente credo che le politiche attive rappresentino uno strumento importante poiché, ad oggi, c’è maggior sensibilità e ci sono stati dei miglioramenti ma il Gender gap è ancora rilevante. In particolare, è evidente la logica delle segregazione, orizzontale, soprattutto per quanto riguarda le STEM, e verticale. Su quest’ultimo punto e prendendo il caso di Padova è possibile notare quanto la forbice tra i generi aumenti nella progressione di carriera: ad esempio, abbiamo più studentesse che studenti, ma il genere maschile torna maggioritario nei dottorati, negli assegni di ricerca, nei contratti di ricerca di tipo a e b, nelle carriere da professori ordinari.

Il Gender Equality Plan (GEP) è un documento strategico e operativo predisposto per l’eliminazione dei disequilibri di genere, requisito per l’accesso ai finanziamenti predisposti dal Programma Quadro della Ricerca dell’UE Horizon Europe, in attuazione della Gender Equality Strategy 2020-2025 della Commissione. Come funziona? Che prospettive apre?

EC: Il GEP rappresenta uno strumento importante, in linea con la necessità di formulare politiche attive. L’attenzione maggiore, credo, deve rivolgersi a evitare il rischio della sua burocratizzazione e di un suo eventuale appiattimento a dispositivo per raccogliere fondi.

CS: Lo strumento del GEP, associato a un’accurata analisi del bilancio di genere, può rivelarsi occasione importante di intervento, come sta avvenendo a Padova. Qua, stiamo promuovendo iniziative per un maggiore bilanciamento vita lavoro e per ridurre la segregazione orizzontale e verticale. Mi riferisco ad esempio all’asilo nido dell’Università, per tutto il personale. Abbiamo poi strutturato una serie di misure che favoriscano l’accessibilità femminile alle STEM e le carriere accademiche delle donne. Inoltre, con il Centro di ateneo “Elena Cornaro”, abbiamo promosso un corso rivolto a tutte e tutti in materia di “Genere, uguaglianza e giustizia sociale”.

La pandemia ha reso ancora più evidente le difficoltà implicite nella conciliazione del lavoro di ricerca e del lavoro di cura. In questo senso anche l’estensione dello Smart working assume la doppia faccia di rischio e risorsa. Cosa servirebbe per una maggiore redistribuzione del lavoro di cura tra i generi?

EC: La pandemia sicuramente ha reso evidente una serie di dinamiche già strutturate. In generale resta il nodo del maggior carico di lavoro sulle donne, anche laddove esiste una maggior collaborazione parentale. In questo senso lo Smart working rappresenta un nodo delicatissimo che necessiterebbe maggior approfondimento e discussione istituzionale. Il punto centrale comunque rimane quello di una necessaria decostruzione dell’immaginario culturale sul femminile, che continua a muoversi all’interno di una dialettica che non abbandona l’idea dell’angelo del focolare.

CS: Ragionare in termini di maggiore bilanciamento tra vita e lavoro e riduzione delle disparità di genere implica una forte trasversalità di temi, ambiti, ambienti. Più in generale, per quanto concerne l’Accademia, con il Centro di Ateneo “Elena Cornaro. Saperi, culture e politiche di genere”, abbiamo redatto un manifesto “Per una caring university”. Il confine tra casa e accademia si fa effettivamente labile, in relazione allo Smart working e a tutte le complicazioni che quest’ultimo implica. Serve ancora una profonda riflessione sul tema ma credo che riconoscere la più diffusa consapevolezza dei rischi che implica possa essere oggi un buon punto di partenza.

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