“Quando sono diventata, dopo 45 anni di silenzio, testimone della Shoah avevo 60 anni, circa 30 anni fa. Ero diventata nonna e sono riuscita a parlare a migliaia di studenti senza mai usare la parola odio. Senza mai usare la parola vendetta“. Per annunciare l’approvazione all’unanimità dei risultati dell’indagine conoscitiva sul fenomeno dei discorsi d’odio ad opera della Commissione parlamentare che presiede, la senatrice a vita aveva preparato un discorso lungo e dettagliato. Ma alla fine, Liliana Segre ha preferito parlare a braccio: “Avevo preparato una relazione che avrei voluto leggere, ma ho cambiato idea”, ha detto lasciando da parte il testo scritto. Nel corso del suo intervento Segre ritorna con la mente a quando era bambina. Tanti riferimenti e l’avvertimento che “i crimini d’odio nascono proprio con le parole” come “quando da bambina mi dicevano muori” e poi c’è stata la Shoah. Lei era diventata “una bambina invisibile“. E, assicura, “è molto brutto esserlo”. Ma nonostante il dolore, nonostante Auschwitz, spiega che la sua vita è stata comunque “di una persona fortunata”. E sulla raggiunta unanimità dei risultati dell’indagine della sua Commissione, Segre si dice “molto contenta”. Nel discorso preparato ma non letto, la senatrice spiegava come il lavoro sia partito “dalla consapevolezza della gravità dei problemi” ovvero dal fatto che “negli ultimi anni la diffusione dei discorsi d’odio è andata aumentando in maniera esponenziale e proprio con riferimento alla diffusione delle nuove tecnologie online” con punte “particolarmente preoccupanti” durante la pandemia.

Ecco il testo preparato dalla senatrice a vita – “Buongiorno a tutte e a tutti, grazie per la vostra partecipazione ed attenzione per questo appuntamento che sancisce la fine del primo importante anno di lavori della Commissione Anti-discriminazioni. In questi mesi abbiamo svolto un lavoro intenso ed approfondito, riassunto nel documento che offriamo ai vari passaggi parlamentari. Colgo l’occasione per ringraziare ancora una volta tutte le colleghe e tutti i colleghi della Commissione. In primis il Vice-Presidente senatore Verducci, per l’importante funzione disimpegnata da relatore nel considerare e valorizzare le varie sensibilità presenti nella nostra Commissione, ma un sentito ringraziamento anche alla Vice-Presidente senatrice Pirovano e alla senatrice Segretaria Emma Pavanelli.

Un ringraziamento particolare poi come ovvio alla Presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati e all’Amministrazione del Senato nel suo complesso, abbiamo sempre avvertito vicinanza e premura per i nostri lavori. La nostra Indagine Conoscitiva si è giovata di numerose e qualificate audizioni, ma anche dell’acquisizione di molti documenti, che hanno implementato il nostro bagaglio di conoscenze nelle materie d’interesse, mettendoci nella condizione di prevedere interventi legislativi incisivi ed adeguati. Siamo partiti dalla consapevolezza della gravità dei problemi. Dal fatto che negli ultimi anni la diffusione dei “discorsi d’odio” è andata aumentando in maniera esponenziale e proprio con riferimento alla diffusione delle nuove tecnologie online. Ci sono state polemiche su questo dato della diffusione crescente dell’odio online. Polemiche però affrettate, perché tutte le testimonianze hanno invece confermano la portata del fenomeno.

Il professor De Biase nel corso dell’audizione ha parlato di “gigantesca ondata” di discorsi d’odio; secondo la professoressa Santerini negli ultimi anni non solo si è registrato un preoccupante aumento dell’antisemitismo e del razzismo su web, ma assistiamo anche ad una evoluzione del fenomeno in nuove forme. Dati questi confermati dall’ambasciatore dello Stato di Israele in Italia e dalla dottoressa Noemi Di Segni Presidente dell’Ucei.

Anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha denunciato l’aumento assai marcato della circolazione dei discorsi d’odio veicolati dai social, con punte particolarmente preoccupanti durante il lungo periodo della pandemia. Sul punto particolarmente netta è stata la denuncia dell’Alto commissario delle Nazioni Unite Michelle Bachelet, che in collegamento con noi ha dichiarato: “l’odio aumenta” e aggiunto: “i social media sono un mezzo importante di diffusione dell’odio online”. Molti sono gli Osservatori dedicati a questi fenomeni. I dati dunque ci sono e sono da tutti verificabili. Bisogna prenderne atto con serietà e responsabilità. Di certo il compito della nostra Commissione non è mai stato ‘colpevolizzare’ i social e le piattaforme, men che mai limitare il diritto di espressione. Il professor Antonio Nicita della University of Arizona ci ha ricordato, nel corso di un’audizione, il carattere insostenibile della alternativa fra libertà di espressione e di dignità della persona. Alternativa da cui si è poi preteso inferire un qualche primato della libertà sulla dignità. In verità si tratta di due forme di libertà di espressione, degne di pari ed irrinunciabile tutela.

Anche con riferimento a questo principio, che istituisce un nesso diretto fra concessione di fondi comunitari e rispetto di determinate regole, ci sono state polemiche, ma in verità abbiamo audito l’onorevole Cornelia Ernst dell’Ardi, l’Intergruppo del parlamento europeo contro le discriminazioni razziali, che ha sollecitato l’approvazione di un Regolamento europeo che imponga ai gestori una moderna ed efficace regolamentazione delle grandi piattaforme on-line ad espressa tutela dei diritti di libertà e della dignità dei singoli e dei gruppi.
L’istigazione all’odio ha sempre minacciato l’animo umano. Ma oggi la sua diffusione può giovarsi di mezzi tecnici di portata inusitata. La dottoressa Nunzia Ciardi, già a capo della la Polizia Postale, ci ha fatto notare che la violenza è in aumento perché la rete è percepita come un luogo “selvaggio” e senza regole, in cui tutto è possibile e poco si rischia. Il procuratore Giovanni Salvi ha parlato di una ”progressione criminosa” derivante proprio dalla capacità dei social media di innescare processi emulativi e cumulativi, in fatto di aggressività ad esempio razzista, in particolari gruppi di alienati e devianti. Nel corso dei nostri lavori non abbiamo mai mancato occasione di sottolineare l’importanza della cultura e della formazione nel contrasto alla diffusione dei discorsi d’odio. Quello che Onu e Unesco chiamano “counter-speech’’, una contro-narrazione, non edificante, ma fatta di conoscenza, informazione, responsabilizzazione, crescita individuale e collettiva.

In conclusione ci siamo sforzati con i nostri lavori di individuare uno snodo strategico: un nuovo e più adeguato bilanciamento fra tutela dei diritti, in primis della libertà di espressione e rispetto però della dignità della persona umana, vera cifra di una esistenza autenticamente libera. Abbiamo lavorato cercando di porci in sintonia ed osmosi con un mondo in continua evoluzione, che tanto più sollecita impegno e responsabilità da parte dei decisori politici. Il documento che presentiamo e che offriremo alla valutazione dell’Aula cerca di restituire il senso del lavoro fatto, ma anche una traccia per quello da fare. È un fatto che ormai il web rappresenta il “bene comune” più importante della nostra epoca. Eppure si tratta di un bene comune per lo più privatizzato, gestito per aspetti essenziali da grandi imprese multinazionali (Google, Facebook ecc.) e questo nonostante appunto le importanti implicazioni non solo per ogni singolo cittadino, ma per lo stesso interesse pubblico, per lo Stato, nei campi della sicurezza, dell’informazione, dell’intelligence, della difesa, della geopolitica anche.

Al riguardo la nostra Indagine Conoscitiva ci ha permesso di acquisire l’intervento del dottor Mazzetti, responsabile relazioni istituzionali di Meta-Italia. Un contributo importante perché dimostra come le stesse grandi, anzi gigantesche, aziende del settore online sono ormai consapevoli della necessità di limitare i discorsi d’odio su Facebook o Instagram. Del resto anche il Management americano di Facebook, a fronte dello scandalo che investì la grande piattaforma privata nell’autunno 2021, arrivò a dichiarare: “è ora che la politica decida regole standard per internet anziché aspettare che siano le imprese a fare scelte che spettano al legislatore”. Parole che ci interrogano come legislatori. Di certo quello del rapporto fra diritti ed interessi, fra pubblico e privato è uno degli aspetti più delicati del problema. In un “Dataroom” delle giornaliste Milena Gabanelli e Simona Ravizza, pubblicato sul Corriere della Sera si legge: “i social sono diventati un’arma potentissima di diffusione dei peggiori istinti umani, in nome della libertà d’espressione”; seguono dei dati: 1 tweet ogni due minuti è contro donne, 1 ogni quattro minuti contro musulmani, 1 ogni dieci minuti contro ebrei, 1 ogni 11 minuti contro omosessuali. Secondo un report 2021 di Amnesty International risultano discriminatori/odiosi il 27% dei commenti riferiti a donne, il 25% alla comunità Lgbt, il 42% all’immigrazione. Questo intendiamo per crescita esponenziale della diffusione dei discorsi d’odio. Del resto in un documento acquisito durante la nostra Indagine Conoscitiva è scritto che ormai le grandi piattaforme digitali “plasmano anche i comportamenti e le interazioni sociali del mondo reale, stabiliscono le opportunità professionali e sociali delle persone e, in definitiva, cosa queste pensano”. Questa è la vera forma di limitazione della nostra libertà di espressione.

Una convinzione che informa ormai le maggiori istituzioni democratiche europee. Sappiamo ad esempio che l’obiettivo del Digital Services Act (Dsa), promosso dalla Commissione Europea, è traghettare l’Europa verso una nuova fase della Strategia europea di regolamentazione delle piattaforme digitali. Lo stesso Presidente Emmanuel Macron, presentando il semestre di presidenza francese dell’Ue, ha definito ”priorità massima”, nella prospettiva di “trasformare l’Europa in una potenza digitale”, proprio l’approvazione del Dsa insieme al Digital Markets Act (Dma). Ma c’è un principio che va acquisendo importanza crescente nell’Unione Europea, il cosiddetto “principio di condizionalità” da parte dei destinatari dei fondi. Nato nell’ambito delle politiche agricole e ripreso in occasione degli stanziamenti del Next Generation Fund, il principio è stato di recente riproposto proprio con riferimento alla responsabilità diretta, cioè non più semplicemente volontaria, dei provider delle grandi piattaforme in ordine al controllo e alla rimozione dei contenuti più gravi e offensivi”.

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