L’epidemia di vaiolo delle scimmie, finora endemico dell’Africa, si sta diffondendo in paesi esterni al continente con una velocità senza precedenti. Una prospettiva ancora più preoccupante, però, sta iniziando ad allarmare gli scienziati, molti dei quali paventano la possibilità che il virus si stabilisca permanentemente al di fuori dell’Africa. Questo è il tema centrale di un approfondimento apparso sulla rivista Science in cui si evidenziano alcuni degli elementi di apprensione relativi al Monkeypox.

Il 24 maggio del 2003 la prima persona non africana a cui è stato diagnosticato il vaiolo delle scimmie è stata una bambina di tre anni del Wisconsin. Nel giro di pochi mesi, diverse decine di persone avevano sospettato o confermato casi di infezione, ma finora non si conoscono casi di endemia del virus in animali selvatici extra-africani. L’epidemia in corso, tuttavia, sta sollevando serie preoccupazioni relative alla possibilità che il virus si stabilisca in popolazioni non africane, il che porterebbe alla formazione di un serbatoio animale permanente che potrebbe favorire episodi epidemici e focolai umani.

“Le indagini sugli animali selvatici nel Wisconsin e nell’Illinois – osserva Anne Rimoin, epidemiologa dell’Università della California a Los Angeles che da tempo studia la malattia nella Repubblica Democratica del Congo – non hanno mai rilevato che il virus del vaiolo delle scimmie fosse endemico in quelle specie. Non si conoscono episodi di trasmissione tra esseri umani e pertanto, almeno per adesso, la situazione non è degenerata”. Alcuni agenti patogeni, spiegano gli esperti, possono trasmettersi facilmente tra le varie specie, rimbalzando tra diversi animali in una serie di zoonosi inverse che possono favorire l’accumulo di mutazioni vantaggiose per la sopravvivenza del virus. Ne è un esempio SARS-CoV-2, che è stato rilevato ad esempio in cervi, visoni, gatti e cani. Con l’espansione dell’epidemia da vaiolo, questo agente patogeno potrebbe dunque stabilirsi in specie non africane, il che costituirebbe un vantaggio per l’evoluzione di varianti più pericolose.

“La prospettiva di serbatoi di vaiolo delle scimmie negli animali selvatici al di fuori dell’Africa – commenta Bertram Jacobs, virologo dell’Arizona State University (ASU) di Tempe – è uno scenario davvero spaventoso”. Le autorità sanitarie hanno consigliato ai pazienti con lesioni da vaiolo delle scimmie di evitare il contatto con i propri animali domestici fino alla completa guarigione. Nel frattempo, con l’80 per cento dei casi extra-africani in Europa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha spiegato che, nonostante nessun animale domestico o selvaggio sia ancora risultato infettato, sarà necessario avviare e stabilire un’attenta collaborazione tra autorità sanitarie e veterinarie per la gestione di animali domestici esposti al Monkeypox.

“La possibilità che gli esseri umani infettati dal virus del vaiolo delle scimmie lo diffondano alla fauna selvatica al di fuori dell’Africa – commenta William Karesh, un veterinario dell’EcoHealth Alliance – suscita seria preoccupazione. Per adesso il numero di casi nella popolazione umana è ancora esiguo, il che riduce le probabilità che si verifichi uno scenario del genere, ma abbiamo validi motivi di preoccupazione”. Ad allarmare gli esperti, ad esempio, il comportamento dei roditori domestici e selvatici, che spesso si avvicinano ai rifiuti che potrebbero essere contaminati. Nonostante il fondato timore, ad oggi tutti i casi umani dal 1970 possono essere ricollegati al virus proveniente dall’Africa e solo sei animali selvatici, cinque roditori e una scimmia, son risultati positivi all’infezione.

“Non abbiamo molte informazioni relative a bacini di infezione diversi – sottolinea Grant McFadden, dell’ASU – ma il vaiolo delle scimmie può infettare molti altri tipi di animali in natura e in cattività. La famiglia di virus a cui appartiene il Monkeypox, poxvirus, non sembra inoltre necessitare di particolari recettori per infettare l’ospite. Sembra inoltre che la resistenza all’immunità dell’ospite dipenda da una famiglia di geni che codificano proteine poco conosciute”. “Non possiamo ancora sapere se il vaiolo delle scimmie sarà effettivamente in grado di stabilirsi in modo permanente nelle popolazioni di animali selvatici extra-africani – conclude Lisa Hensley, microbiologa del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti – in questo momento non siamo in grado di fare previsioni. Sappiamo soltanto che siamo di fronte a una potenziale minaccia di cui conosciamo meno di quanto pensiamo di sapere”.

di Valentina Di Paola

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