Giada non è riuscita a dormire. Troppa l’euforia, troppa l’impazienza di riabbracciare Gabriel, il suo bambino di dieci anni, che non vedeva da quattro mesi. “Tra gli impegni con la scuola e le restrizioni è stato complesso, ma quando ha saputo che avremmo giocato assieme a calcio era emozionato. Questa notte non avrà preso sonno nemmeno lui. Non vedo l’ora che arrivi”, racconta entusiasta. Il suo sguardo è già rivolto verso il cancello dell’ ‘area verde’ della Casa circondariale femminile di Roma Rebibbia, lì dove si accede al campo in erba sintetica da calcio a 5 del penitenziario.

È in questo campetto, in cemento fino allo scorso dicembre (poi ammodernato e da poco inaugurato grazie ai contributi della regione Lazio e la collaborazione dell’associazione Antigone), che ogni sabato pomeriggio dal 2018 gioca l’Atletico Diritti, la prima squadra in Italia formata da sole detenute. “Ci rende orgogliose poter mostrare che il carcere va oltre la reclusione. Questa è una battaglia per i diritti e pure contro gli stereotipi di genere. Ci restituisce piccoli, ma in realtà grandi spazi di quotidianità”, raccontano Giada e le altre detenute di Rebibbia. Le partite si giocano sempre in casa, perché ottenere permessi per uscire per molte ragazze non è semplice. Poco importa, però, almeno questa volta.

Perché da quel cancello questa volta non entreranno le giocatrici della squadra ospite, ma i propri figli. Merito dell’iniziativa ‘La partita con Mamma“, organizzata dalla onlus Bambinisenzasbarre, in collaborazione con il ministero della Giustizia, all’interno della campagna ‘Carceri aperte‘. Un progetto che permetterà per tutto il mese di giugno l’incontro tra genitori detenuti e figli, dopo due anni di sospensione a causa della pandemia da Covid-19. “L’iniziativa era in realtà nata come ‘La partita con Papà‘, ma noi abbiamo aderito con le mamme”, rivendica Alessia Giuliani, educatrice del carcere e funzionaria giuridico-pedagogica. Accanto a lei ci sono Carolina e Giorgia, che da anni allenano come volontarie la squadra delle detenute di Rebibbia: “Una risposta alla società e un riscatto per tante ragazze. Le donne possono fare tutto, alle donne piace giocare a calcio, anche con i propri figli. Sembrerebbe scontato, ma oggi serve ancora ribadirlo”, spiegano. Anche per questo, rivendicano, quella delle donne detenute di Rebibbia è anche una lotta contro le discriminazioni di genere.

Ma è anche un ‘calcio’ all’incubo quotidiano del carcere, contro le sofferenze, i pregiudizi. Un modo per recuperare quel tempo perso, da vivere con i propri figli, almeno per un giorno. “Di solito li possiamo vedere per i colloqui, ma non più di un’ora alla settimana. E quei minuti sembrano volare: non c’è nemmeno il tempo di chiedere come va, come è andata a scuola, che sono già via. Così è dura”, non trattiene l’emozione Šejla, che di figli ne ha ben quattordici. “Sei sono minori, il più piccolo ha quattro anni, il più grande 26. Mi trovo a Rebibbia da un anno, ma dovrei scontarne ancora 4. Il motivo? Furti, ero ‘costretta’ per vivere, c’è stato un cumulo. Ora spero di poter ottenere una misura alternativa, i domiciliari, per tornare da loro e poterli crescere”, racconta, mentre aspetta tre dei suoi bambini, arrivati per giocare con lei.

Non è l’unica a sperare di abbandonare presto quelle mura, quelle sbarre. “Quando uscirò andrò via dal Lazio, voglio ricominciare un’altra vita. Qui lavoro e mi occupo delle pulizie. Ma temo che fuori non troverò un’occupazione, il pregiudizio pesa“, spiega Valentina. Ha tre figli, anche lei non li vede da tempo: “Farli stare qui dentro è inumano, per questo non voglio che vengano più di una volta al mese per i colloqui. Quando il più piccolo aveva meno di tre anni avevo la possibilità di farlo stare qui, ma sarebbe stato come fargli pagare i miei errori, non esiste”.

Per questo lancia un appello al Parlamento, affinché si metta fine all’incubo dei bambini in carcere: “La sezione nido dei bambini dentro questo carcere andrebbe abolita, li sento piangere e urlare. Vero che al posto delle sbarre ci sono cancelletti e le porte sono più piccole, ma sempre un carcere è. Qui dentro le madri con figli così piccoli non dovrebbero mai entrarci”, rivendica Valentina. È l’obiettivo anche del deputato Pd Paolo Siani, primo firmatario del disegno di legge da poco approvato a Montecitorio, con relatore Walter Verini, che punta a fare in modo che i bambini piccoli non si trovino a vivere in carcere al seguito di madri recluse.

Con 241 voti favorevoli e 7 contrari la proposta ha ottenuto il via libera della Camera, ma non c’è ancora una data per il passaggio in Aula a Palazzo Madama. E con la legislatura ormai entrata nei suoi ultimi mesi, in un clima da perenne campagna elettorale, il timore che non diventi legge è reale. “Il carcere deve essere l’extrema ratio, se ci sono misure alternative è giusto concederle, soprattutto per le madri recluse con figli piccoli”, rivendicano però detenute e volontarie. E l’obiettivo del disegno di legge è proprio quello di promuovere il modello delle case famiglia, evitando che le madri con figli conviventi di età inferiore ai 6 anni finiscano in carcere. Al tempo stesso, in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, è previsto anche il ricorso agli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Stesse misure sono previste anche per i padri, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza. Come anticipato dall’associazione Antigone, la legge offrirà strumenti che dovrà poi essere il giudice a utilizzare “per ottenere il risultato di veder diminuire il più possibile la presenza dei bambini in cella”. Certo, sarebbe comunque una svolta, richiesta da anni: “Sarebbe auspicabile che il ddl diventi legge e non venga vanificato il lavoro fatto. Non si può far crescere un bambino in strutture come queste. La casa circondariale femminile di Rebibbia, seppur con i soliti problemi di sovraffollamento (tasso pari al 123,5%, con 320 donne presenti, ndr) permette attività e uscite per i bambini. Ma non sarà mai una dimensione che non rimanda a qualcosa di penitenziario”, spiega Alessia Giuliani.

Secondo l’ultimo rapporto della stessa associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, in totale al 31 marzo 2022 erano 19 i bambini di età inferiore ai tre anni che vivevano insieme alle loro 16 madri all’interno di un istituto penitenziario: 8 ospitati nell’Istituto a custodia attenuata per madri detenute di Lauro, unico Icam autonomo, quattro proprio all’interno della sezione nido della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile, due bambini ognuno negli gli Icam interni alla Casa Circondariale di Milano San Vittore e di Torino e nella Casa Circondariale di Benevento, uno infine all’interno dell’Icam della Casa di Reclusione Femminile di Venezia. Numeri ridotti, rispetto a quelli registrati negli scorsi anni, anche ‘grazie’ alla pandemia, ma ancora presenti nelle carceri italiane, dove sono recluse in totale 2276 donne, pari al 4,2% della popolazione detenuta totale.

Il Parlamento deve far presto. Speriamo che entro l’anno ci sia un cambiamento e ci permettano di stare con i nostri figli”, rivendica Valentina, mentre abbraccia una delle sue figlie. Soltanto una dei 100mila bambini che, in Italia (2,2 milioni in Europa) secondo i numeri di Bambinisenzasbarre, hanno il papà o la mamma in carcere e rischiano di finire emarginati, “vivendo in silenzio il loro segreto del genitore recluso per non essere stigmatizzati ed esclusi“.

A Rebibbia però c’è chi, in attesa di novità di legge, potrà già riabbracciare sua madre, come Gabriel. Giada uscirà tra sei settimane, quando avrà terminato di scontare la sua pena: “Qui dentro ho seguito un corso da sommelier, mi è stato già offerto un posto di lavoro da una nota catena alberghiera, non mi farò sfuggire questa occasione. E finalmente potrò tornare da lui”, sorride, rivolta verso il suo bambino. Altre donne dovranno attendere ancora, alcune diversi anni: “Sto pagando per i miei errori, a mia figlia ho raccontato tutta la verità, affinché non varchi mai questo cancello, a meno che voglia entrare come volontaria”. Seppur tra le difficoltà, c’è chi non dimentica di aver ricevuto occasioni di riscatto: “Non è vero che il carcere è solo un posto negativo, la rieducazione è possibile, si imparano tante cose. Qui lavoriamo e con l’Atletico Diritti abbiamo trovato una famiglia”, c’è chi spiega, seppur con la mente rivolta al domani. Per ricominciare da capo, con i figli accanto.

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