Che le prossime elezioni parlamentari libanesi del 15 maggio siano le più importanti da almeno un decennio a questa parte, se non dalla rivoluzione dei cedri del 2005, lo si vede già dai dati sul voto all’estero. Non si tratta di un aspetto marginale nella dinamica elettorale del paese levantino, se è vero che oggi sono quasi 15 milioni i libanesi della diaspora, quasi il triplo rispetto ai libanesi residenti in patria. Da quando la legge elettorale è stata modificata nel 2017 – al tempo con la sola, temporanea opposizione del Fronte patriottico libero (FPM), partito cristiano del presidente della Repubblica Michel Aoun -, i libanesi all’estero possono votare su tutti e 128 i seggi del parlamento, a differenza di quanto accadeva fino a 5 anni fa, con i 6 seggi riservati appunto ai candidati all’estero.

Sono 245mila gli elettori registratisi nelle varie circoscrizioni in oltre 45 Paesi, il triplo rispetto agli 82mila delle elezioni di 4 anni fa. Un rapporto che, secondo le stime della Reuters, rispecchia anche quello della effettiva affluenza al voto. Particolarmente rilevante è stata l’affluenza al voto negli Emirati Arabi Uniti, dove risiedono circa 100mila libanesi (compresi i non aventi diritto, come i minorenni): secondo i dati del ministero degli Esteri libanese, citati dall’emittente LBCI, 18mila libanesi sono andati alle urne, facendo registrare il picco d’affluenza (77%) nell’emirato di Abu Dhabi, poco superiore a quella di Dubai (71%).

Non è difficile capire quali siano i motori che hanno spinto questo notevole aumento degli elettori nel giro di soli 4 anni: rabbia e insofferenza. Anche senza menzionare gli effetti della pandemia, il Libano a partire soprattutto dal 2019 ha vissuto un tracollo senza precedenti, passato anche per il dichiarato default a marzo 2020 per il mancato pagamento di eurobond da 1,2 miliardi, con la lira libanese che ha dapprima perso il tasso fisso col dollaro (1.500 lire per un dollaro) e poi ha visto erodersi fino al 90% il suo valore, mentre i salari sono rimasti immutati, perdendo gran parte del loro potere d’acquisto. Se nel 2019 il salario minimo valeva circa 450 dollari, alla fine del 2021 ne valeva 70.

L’esplosione al porto di Beirut dell’agosto 2020, poi, oltre a generare decine di miliardi di danni materiali e circa 300mila sfollati, ha rafforzato l’atmosfera di precarietà e paura nel Paese, contribuendo a trasformare lo storico disincanto e la sfiducia dei libanesi verso la loro classe politica in una esplicita ostilità. Molti libanesi oggi non si limitano più a rimarcare l’irrimediabile corruzione dei loro politici – il Libano è 127esimo nella classifica mondiale di Transparency International – ma li ritengono in misura crescente pericolosi per la sicurezza del Paese, impegnati in lotte per la conservazione e spartizione di una rendita di potere di cui i movimenti della società civile vorrebbero privarli. In questi ultimi tre anni, secondo la Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (ESCWA), il tasso di povertà multidimensionale in Libano è passato dal 42% all’82%, su una popolazione di circa 4,5 milioni di persone.

Il drammatico peggioramento delle condizioni economiche non ha però solo rinsaldato la sfiducia dei libanesi verso i partiti tradizionali, ma potrebbe aver paradossalmente aumentato l’effettivo potere negoziale di questi ultimi sui primi. Non è infatti un mistero che ad ogni elezione, a partire dalla fine della guerra civile nel 1990, le imponenti macchine elettorali di quei partiti – che solo pochi anni prima erano anche delle milizie – reduci dalla guerra si attivino sul territorio con pratiche come il voto di scambio o con semplici – ma corposi – incentivi. “Quest’anno sono stato contattato da alcuni membri del FPM qui in Francia – riferisce Charbel, studente della Saint Joseph University che sta passando un semestre a Parigi – che mi hanno offerto 100 dollari per votarli. Quattro anni fa me ne offrirono 200, forse c’è la crisi anche per loro”, scherza, aggiungendo poi di aver comunque deciso di votare per una candidata della società civile.

A Reem, che vive in Italia da meno di un anno, è accaduto qualcosa di anche più inquietante, che conferma la notizia secondo cui diversi partiti tradizionali libanesi avrebbero acquisito dati personali degli elettori durante la campagna elettorale, in modo da potervi esercitare pressioni: “Avevo rimosso la mia scheda sim libanese da quasi un anno. Prima di andare a votare in ambasciata l’ho rimessa nel telefono, e nel giro di trenta secondi sono stata contattata da una attivista delle Forze Libanesi – partito cristiano nazionalista, noto per le posizioni altamente ostili ad Hezbollah -, che mi ha subito chiesto se volessi votarli e di cosa avessi bisogno per farlo”.

Per tantissimi libanesi, che nel giro di due anni si sono visti estromessi da una classe media ormai polverizzata, oppure sono ulteriormente sprofondati nella povertà, sarà complicato ignorare gli incentivi dei partiti. Anche per chi è all’estero, considerando che le rimesse degli emigranti costituiscono tuttora un forte sostegno indiretto al welfare che in misura maggioritaria è gestito proprio dai diversi partiti confessionali, con le loro scuole e i loro ospedali. Se gli under 30 che risiedono all’estero voteranno con ogni probabilità soprattutto per candidati indipendenti, non vanno sottovalutati i meccanismi di fedeltà famigliare che spingono storicamente migliaia di libanesi della diaspora, soprattutto over 40, a votare per ciò che già conoscono e più nello specifico per il candidato tradizionale che ha rapporti clientelari diretti con la propria famiglia in Libano, spesso nel contesto dei villaggi.

Appare molto probabile che l’FPM possa continuare a soffrire di una emorragia di voti – iniziata già due anni fa – a favore di altri partiti cristiani e delle liste indipendenti, soprattutto per via della sua storica alleanza con Hezbollah, la cui reputazione presso i libanesi laici, musulmani sunniti e cristiani in particolare è precipitata negli ultimi mesi, specie dopo gli scontri a fuoco dello scorso ottobre, ai quali sostenitori del partito sciita avevano preso parte (scontrandosi con altri delle Forze Libanesi) dopo aver organizzato una marcia in protesta contro Tarek Bitar, il giudice incaricato di indagare sull’esplosione al porto della capitale.

A fronte di 3,8 milioni di votanti registrati in Libano, i candidati – suddivisi in 103 liste all’interno di 15 distretti elettorali e 27 sottodistretti – in questa tornata saranno 718, il 23% in più rispetto al 2018. Un aumento sostanzioso soprattutto delle candidate, passate da 86 a 116, tra cui figura anche la più giovane in assoluto, la 25enne Verena al Amil, che corre nel distretto a maggioranza cristiano maronita del Metn. È una donna anche l’unica candidata anti-establishment (ex conduttrice televisiva del canale ufficiale del partito Mustaqbal di Saad Hariri) entrata in Parlamento nel 2018, Paula Yacoubian, che anche questa volta si è candidata nel distretto di Beirut 1, uno di quelli con la soglia di sbarramento più bassa. Il suo LiWatani (Per il mio Paese) stavolta però dovrà correre anche contro Beirut Madinati e Qadreen (I capaci).

A ridimensionare il peso delle liste espressione della società civile potrebbe concorrere, infatti, anche la loro frammentazione. Una importante spaccatura si è infatti venuta a creare rispetto alla strategia da adottare: una parte della società civile emersa dalle proteste antigovernative del 2019 ritiene qualunque alleanza con i partiti e figure tradizionali come una linea rossa, altri sembrano invece più aperti ad alleanze tattiche con personalità fuoriuscite dai partiti – come Neemat Frem o Charbel Nahas -, con imprenditori come Waddah Sadek e con partiti come le già citate Forze libanesi e Kataeb (Falangisti), rimasti fuori dall’ultimo governo di “unità nazionale” e impegnati negli ultimi anni in una sorta di restyling anti-establishment, funzionale all’intercettazione di una porzione rilevante di voti, soprattutto dei cristiani della borghesia cosmopolita beirutina e dei villaggi del nord.

Secondo un recente studio di The Policy, esistono differenze degne di nota anche nei programmi elettorali dei gruppi d’opposizione governativa. Ad esempio il segmento più di sinistra spinge per una legge che renda politici e banchieri imputabili per le perdite del settore finanziario e per la costituzione di un fondo di protezione sociale universale da finanziare con un aumento delle tasse. Altri vorrebbero invece la privatizzazione di alcuni asset statali proprio per proteggere il settore bancario, affidando quindi il welfare ad alcuni programmi mirati di assistenza sociale. Queste ed altre differenze hanno fatto sì che su 15 distretti elettorali in ben 13 esistano liste della società civile che correranno l’una contro l’altra.

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