L’uomo con il numero 94 sulle spalle si alza di scatto e si incammina verso la propria porta. Lo sguardo basso, le braccia larghe, l’espressione sconsolata sulla faccia. È già la terza volta che raccoglie il pallone in fondo al sacco. E se non fosse stato per la traversa e per l’imprecisione degli attaccanti avversari, le cose sarebbero andate addirittura peggio. È una beffa. Anche perché a condannarlo a quel pomeriggio di passione è stata una consonante. Perché contro l’Atalanta Ivan Provedel non doveva neanche esserci. Il giudice sportivo lo aveva squalificato per una giornata. Una settimana prima la Lazio aveva espugnato il Picco con un rotondo 3-4. E il portiere dello Spezia aveva accolto un gol degli ospiti con una fragorosa bestemmia. “Un’espressione blasfema, individuabile senza margini di ragionevole dubbio”, sentenzia il procuratore federale. Tradotto dal giuridichese vuol dire un turno di squalifica. Sembra una decisione come tante, invece è l’inizio di una battaglia legale che oscilla fra grottesco e il surreale. Visto che non c’è nessuna registrazione audio dell’imprecazione lanciata da Provedel, il moccolo può essere desunto solo da un’attenta lettura del labiale. Il che regala un eccesso di discrezionalità a chi lo esamina.

Le immagini, l’audio e i periti – Perché la differenza fra un dio e un diaz può salvare bestemmiatore e squadra al tempo stesso. Lo Spezia decide di fare ricorso. D’altra parte c’è anche un precedente che lascia ben sperare. A novembre Frattesi del Sassuolo aveva pronunciato il nome di Dio invano a favore di telecamera. Anche allora, in assenza dell’audio, si era giudicato il movimento delle labbra. I legali del club neroverde avevano proposto una chiave interpretativa diversa. Il loro centrocampista aveva esclamato “Porco zio”. E basta. La Corte sportiva d’appello s’era arrovellata. Questione di una consonante che cambiava, eccome, la sostanza. Alla fine i periti avevano accettato questa seconda versione, giudicandola “accreditata con uguali margini di verosimiglianza dalle relazioni di consulenza tecnica in atti”. Così la squalifica era stata cancellata. Esattamente lo stesso destino che è toccato a Provedel la scorsa settimana. È un teatro dell’assurdo che infrange ogni steccato della logica, che non segue il vero ma il verosimile. Ma che racconta soprattutto di quel rapporto morboso che lega insieme il nostro calcio e la bestemmia.

Verona, dove tutto ebbe inizio – Tutto inizia nel 1922 nella cattolicissima Verona. Il 29 luglio il cavalier Amedeo Balzarro viene folgorato da un’intuizione: istituire una campagna nazionale contro la blasfemia. L’idea piace talmente tanto da trovare che viene sposata addirittura da Vittorio Emanuele III. Così sul marmo cittadino, anche quello che adorna la passeggiata più in voga all’epoca, mani anonime vergano scritte anti imprecazioni. Le giornate dedicate al calcio vengono scandite dal motto: “Date un calcio alla bestemmia. Molti punti ma nessuna bestemmia. Non profanate lo sport”. Verona diventa il centro che propugna una nuova moralità, il ritorno alla rettitudine dei costumi. Con risultati altalenanti. Sessantotto anni più tardi la città otterrà un record piuttosto singolare. Mohamed Sami, un operaio di 35 anni che lavora in un’azienda tessile cittadina, decide di licenziarsi e iniziare a vivere per strada. Non ce la faceva più ad ascoltare i moccoli dei suoi colleghi autoctoni, dirà qualche tempo dopo a un responsabile della Cgil cittadina. È la prima volta che qualcuno decide di rinunciare a un contratto di lavoro per un motivo simile. Ma rischia di non essere neanche l’ultima: anche un altro marocchino che lavora nell’industria del marmo vuole lasciare la sua ditta. È musulmano, ma il malcostume resta sempre malcostume.

La svolta: Garbarini e il signor Melegali – Per anni la bestemmia rimane protagonista sotterranea, presenza effimera che non può essere catturata da riprese televisive ancora rudimentali. I calciatori biastimano, ma se ne accorgono soltanto loro. Tutto rimane così fino al 12 ottobre 1975. La Juventus gioca a Como. Ed è sotto per 2-1 a due giri di lancette dalla fine. Garbarini prende il pallone e lancia lungo. È un’idea che non piace a capitan Correnti, che avrebbe preferito ricevere la sfera sui piedi. “Garba! E porco… teniamo sto pallone che è finita!”, esclama il centrocampista. L’arbitro, il signor Menegali, ferma il gioco. Sugli spalti i tifosi non capiscono. Qualcuno crede che si tratti del fischio finale e inizia a lanciare in aria il cappello. Invece è punizione per la Juventus e ammonizione per Correnti. Capello tocca, Cuccureddu tira, Fontolan devia nella propria porta il pallone del pareggio bianconero. A fine partita l’allenatore del Como Beniamino Cancian è distrutto: “Tutti bestemmiamo in campo – dice – non è una bella cosa, ma succede sempre così. E noi dobbiamo perdere una vittoria ormai acquisita soltanto perché l’arbitro ci fischia una punizione contro perché uno tira un moccolo! È una cosa che non sta né in cielo né in terra. C’è da tirare qualche moccolo adesso, non prima!”.

Il toscano Ulivieri e il fratello di Albertini – Tutti i tentativi di eradicare la bestemmia dalla società sono destinati a fallire. Perché non c’è niente di più rassicurante di una cattiva abitudine. La blasfemia si ritaglia uno spazio sui giornali italiani. Nella cronaca, nella critica sociale, in qualche intervista a preti e prelati. Nel 1989 (sempre) a Verona psicologi e professori universitari danno vita a uno studio. Il 72% degli intervistati dice che il linguaggio blasfemo è più radicato nei bar, il 51% che è altrettanto presente nei posti di lavoro e il 29% negli ambienti sportivi. L’86% del campione, però, si trova in disaccordo con l’espressione “quando uno si arrabbia ha il diritto di bestemmiare”. Non è molto, ma è già qualcosa. Nel marzo del 1996 padre Sebastiano Bernardini, allenatore della Nazionale dei frati Cappuccini, afferma di voler sottoporre all’attenzione del Coni e della Figv una sua proposta. “Le vittime indirette di queste imprecazioni sono i bambini”, dice. Quindi le società devono essere multate e i bestemmiatori devono essere non espulsi, ma sospesi dal gioco per 3 minuti. È una proposta che non verrà mai accolta. Anche perché come disse una volta Renzo Ulivieri: “Se la bestemmia fosse davvero reato ci darebbero l’ergastolo”. Demetrio Albertini, invece, ha un fratello sacerdote. E giura di averlo utilizzato per far smettere di bestemmiare l’intero spogliatoio del Milan. “Ricordo bene di essere corso a rimproverare compagni anche molto più famosi di me. Senza problemi – ha detto una volta a La Gazzetta dello Sport – Perché il problema è loro, io glielo ricordo. Chi non riesce a dominare i propri nervi su un campo di calcio non riuscirà a farlo nemmeno nella vita”.

Il c.t. Lippi e il “modo di parlare nostro” – Il novembre del 1998 è un mese particolarmente florido per le bestemmie nel calcio italiano. Simone Inzaghi viene squalificato per aver biastimato due volte contro l’arbitro. Poi tocca a Marcello Lippi. A dieci minuti dalla fine di Udinese-Juventus viene fischiato un fuorigioco ai bianconeri. L’allenatore corre fuori dall’area tecnica e spara un moccolo contro l’arbitro. Così viene squalificato in vista della trasferta in casa della Roma. “È vero, ho bestemmiato – ammette Lippi – e certamente non avrei dovuto. Mi dispiace. Ma sono toscano, certe cose mi escono senza intenzione, bestemmio tremila volte al giorno. Sul referto è stata scritta la verità, però francamente la sanzione decisa dal giudice mi sembra eccessiva. Sui campi se ne sentono di tutti i colori ed essere squalificato per una gara importante francamente mi dà fastidio”. Sei anni più tardi Lippi diventerà c.t. della Nazionale. E dopo aver subito un gol dalla Slovenia inizierà a imprecare un paio di volte contro l’Altissimo a favore di telecamera. Più del risultato a far montare la polemica sono le bestemmie dell’allenatore azzurro. “Capisco che l’Italia è un Paese cattolico e non ha la filosofia toscana, ma se dico che ho tirato un paio di bestemmie in maniera scherzosa, subito spunta un cardinale… Si tratta solo di un modo di parlare nostro”.

Le 67 volte di Silvio Baldini – La caccia alle streghe si trasforma in Santa Inquisizione nel 2001. A novembre il commissario della Figc Gianni Petrucci annuncia il pugno di ferro. Tutti i bestemmiatori saranno perseguiti. Il primo a finire nei guai è Silvio Baldini. Nella gara contro la Salernitana l’allenatore smoccola contro l’arbitro. Per 67 volte, scrive nel referto il quarto uomo. “Non mi ricordo se ho bestemmiato – dice il mister – ma se è successo, è giusto che mi abbiano squalificato”. Qualche anno dopo cambierà versione: “Alt: ho soltanto detto zio cane, il quarto uomo ha sentito ed equivocato. Il Trap può farlo e io no? Ho la coscienza a posto, l’ho detto anche a don Claudio, il padre spirituale del Brescia, una grande persona. Gli ho assicurato che si trattava di un semplice intercalare”. E proprio monsignor Paganini spiegherà: “Quando Baldini allenava il Catania mi chiamò perché aveva problemi con alcuni giocatori che non gradivano le sue bestemmie. Sono andato lì per spiegargli che quello suo è solo un intercalare”. Poco dopo tocca a Vavassori e a Mimmo Di Carlo. Il momento più alto viene toccato due settimane più tardi.

Novellino pentito e il puritanesimo di don Mazzi – Il Piacenza di Novellino sta pareggiando a San Siro quando l’allenatore bestemmia contro una decisione dell’arbitro. La squalifica è inevitabile, ma l’intervista di Novellino al Corriere della Sera diventa una pietra miliare sull’argomento. “Sono pentito. Sono un cattolico praticante ed è giusto che paghi – dice – però gli stranieri sono avvantaggiati: chi si è accorto se Terim smoccolava in turco? E Sukur? E gli ucraini, i giapponesi, gli iraniani, gli olandesi?”. E ancora: “Mia moglie ha visto 90° Minuto e mi ha chiamato subito: ‘Walter questa volta ti squalificano, ti sta bene così impari’. I miei figli mi conoscono, sanno che appena posso vado in chiesa. Vedermi dipinto come un bestemmiatore di professione dai giornali mi ha dato fastidio. Quello non sono io”. Anche don Mazzi è scettico: “Punire allenatori e giocatori perché bestemmiano? – dice – Non capisco quale tipo di messaggio si vuole trasmettere con questo puritanesimo da copertina. Questa è l’ultima sparata di un mondo contraddittorio”. Tre anni dopo, nel ritiro dell’Italia agli Europei, a Buffon (un abitudinario dell’imprecazione blasfema) scappa una bestemmia in allenamento. Trapattoni non gradisce e sottolinea: “Se non pari un rigore a Materazzi, cosa c’entra la Madonna?”.

Diritto di espressione e la gigantografia della Madonna – Il 2010 è l’anno della svolta. Petrucci chiede un altro giro di vite. I blasfemi saranno puniti con il cartellino rosso. FifPro, il sindacato internazionale dei calciatori, non ci sta. “Come chiunque altro i giocatori hanno il fondamentale diritto di espressione: ognuno può dire ciò che vuole, anche se può essere spiacevole”, dice l’avvocato Wil Van Megen. “Se la Figc vuole punire la bestemmia – aggiunge – lo può fare solamente con l’appoggio del ministero della Giustizia. Ma nessun governo ha fatto qualcosa del genere negli ultimi 100 anni”. Petrucci è allibito: “Hanno perso un’occasione per stare zitti”. Ma il problema è che la blasfemia sembra fin troppo radicata nella cultura del Paese. A ottobre l’Espresso pubblica un video. Si vede il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che racconta una barzelletta. E tutto termina con una bestemmia. Il mondo della politica esprime il suo disgusto, quello religioso insorge. “Ci mancava solo la bestemmia”, scrive Avvenire. Qualche mese dopo il Mussetta 2010, squadra che milita in Terza categoria, adotta un rimedio casalingo: per evitare espressioni blasfeme ecco che a bordo campo viene collocata una gigantografia della Madonna. Un’idea che non sfiora neanche il sindaco di Montegrotto (Padova), che decide di chiudere un campetto vicino a una chiesa per eccesso di moccoli. Nel nostro calcio si va avanti così per anni. Chi bestemmia viene squalificato. Il più sfortunato è Bryan Cristante della Roma. Nel dicembre 2020, contro il Bologna, prima si fa autogol e poi se la prende con la famiglia santa. È una doppia beffa. Perché viene anche squalificato. I moccoli diventano problema condiviso poco più tardi. Nel campionato del Vaticano un calciatore perde la testa per una decisione dell’arbitro e inizia a bestemmiare a perdifiato. Viene squalificato per tutta la stagione. Ma lì, forse, la differenza fra un Dio o un Diaz non è poi così importante.

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