Fino all’8 maggio una grande area è riservata alle vere protagoniste della manifestazione – le “Donne in Rosa” – donne che stanno affrontando o hanno affrontato il tumore del seno. Con la loro testimonianza, oltre a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della diagnosi precoce e mandare un messaggio di forza e speranza, hanno generato un cambiamento culturale nell’approccio alla malattia. Al Villaggio della Salute oggi l’ultimo di quattro giorni di salute, sport, benessere e solidarietà per sostenere la lotta ai tumori del seno.

Non ci credeva nemmeno lui, all’inizio. Sul volo di ritorno dagli Stati Uniti, si svegliava, e controllava che in tasca ci fosse davvero l’assegno da 250mila dollari. Quando lo ricorda oggi, al professor Riccardo Masetti si accendono gli occhi. Eppure dalla fine degli anni ‘90 di tempo ne è passato, da quando conosce una donna americana che aveva creato nel 1982 la fondazione Susan G. Komen, in memoria della sorella, morta di cancro al seno a soli 36 anni. L’evento simbolo della fondazione era una mini-maratona per le donne a cui era stato diagnosticato un tumore al seno: la “race for the cure”.

Sono passati 30 anni, a oggi la “Race for the cure” – che in Italia si svolse per prima a Roma – è la più grande manifestazione per la lotta ai tumori del seno: oltre 1 milione di partecipanti nelle diverse edizioni italiane. Si corre nella capitale, ma anche a Bari, Bologna e Brescia, a Pescara e a Matera. A Roma da anni si raggiunge il record di iscritti: migliaia di “donne in rosa”, ovvero donne che hanno avuto il cancro al seno e che, come piace dire a Masetti, indossando una maglietta o un berretto di colore rosa, diventano “ambasciatrici della prevenzione”.

“Dagli Stati Uniti all’Italia, la Race ha cambiato il modo di guardare a questa malattia: grazie alla condivisione dell’esperienza, le donne non hanno paura di mostrarsi e si danno forza l’un l’altra”, racconta il Prof nel suo studio, al 7° piano del Policlinico Gemelli di Roma, dove ha sede il Centro di senologia che dirige (con oltre 1.400 pazienti operate all’anno, una delle eccellenze in Italia).

Per l’inaugurazione di questa edizione della Race di Roma – la prima in presenza, dopo la fine della pandemia – resta un uomo a cui non piace comparire, anche se per la “Race” – “è come il mio quarto figlio”, dice lui – entra ed esce da dirette tv per promuovere l’evento. “Con i fondi raccolti, abbiamo investito oltre 17 milioni di euro per più di 850 progetti di prevenzione e supporto alle donne operate, 3 carovane della prevenzione che hanno fatto tappa in 13 regioni, 250 premi per giovani ricercatori”.

Masetti racconta come in quasi trent’anni la malattia sia cambiata molto, così come le terapie e le tecniche con cui si interviene. “Nonostante sia un tumore altamente curabile, resta avvolto da una grandissima paura, anche perché prima una donna restava profondamente segnata dall’invasività e tossicità dei trattamenti. C’è un problema in parte culturale e in parte di accesso alle cure. In Calabria, per esempio, dove come in ogni regione ci sono gli screening gratuiti per le donne potenzialmente interessate, meno del 20% lo effettua. Ed è proprio una diagnosi tardiva che può comprometterne l’esito”. Che fare, quindi, con un tumore che per Masetti è “democratico”, nel senso che non guarda in faccia nessuno? “È necessario confrontarsi sempre di più sulla ferita, non solo fisica, che un tumore del genere lascia”. Un pensiero in linea con l’importante svolta dell’oncologia integrata, che s’interessa non solo del trattamento medico del cancro, ma anche del “terreno” della malattia, e di conseguenza, della prevenzione, e della qualità della vita dopo il trattamento.

“Si sa, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi”, scriveva Tiziano Terzani. Poi, a quella parola, “CHEMIOTERAPIA”, d’improvviso diventa tutto, in un solo istante, nero. La paura della morte, di perdere i capelli, il lavoro, gli amici. Il sentire che, da quel momento in poi, ci sarà per sempre un prima e un dopo. Per tante donne, il Professor Masetti è stato, ed è, la mano che ti accarezza mentre ti stai per addormentare in sala operatoria. Ma è anche un riferimento per tutto il viaggio che continua. Il prossimo obiettivo? “Mi piacerebbe dedicarmi all’ospedale che abbiamo costruito in Ghana. Nella mia vita ho avuto la fortuna, tra Stati Uniti e Italia, di lavorare con la medicina “a risorse massime”. Ho voglia ora di dedicarmi a quella “a risorse zero”. Per restituire tutto quello che ho ricevuto”.

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