Ogni leggenda che si rispetti ha bisogno della sua pietra fondante, di una scintilla in grado di convertire la cronaca in storia da tramandare. Tutto inizia una sera di diciotto anni fa. Sinisa Mihajlovic ha ricevuto una testata da Ibrahimović durante una partita di campionato fra Inter e Juventus. Ma a farlo andare su tutte le furie sono le parole del procuratore dello svedese. Così decide di passare al contrattacco. “Cos’è che vuole il pizzaiolo?”, dice con disprezzo. È una frase che sembra uscita dall’arte di avere ragione di Schopenhauer, ma è soprattutto un’etichetta che si appiccica sulla schiena di Mino Raiola. Per tutti Carmine da Nocera Inferiore diventa l’uomo che faceva le pizze. Anche se in tutta la sua vita non ne aveva cucinata neanche mezza. Al massimo le aveva servite al tavolo del ristorante che i suoi genitori avevano aperto ad Haarlem, in Olanda.

Avevano lasciato l’Italia quando Carmine aveva appena un anno. Una storia di emigrazione come tante. Tanti problemi da lasciarsi alle spalle, tanti sogni da provare a inseguire. Fra quei tavoli va in scena il cortocircuito temporale di Mino. Diventa uomo prima ancora di diventare ragazzino. Perché il mondo dei grandi è molto più interessante di quello astratto dei suoi coetanei. Carmine impara l’inglese grazie al cartone di Mickey Mouse che guarda sulla tv olandese. Ma soprattutto inizia a prendere familiarità con il colore dei soldi. A quindici anni fa già il contabile nel ristorante di famiglia. Comincia a maneggiare le banconote, a pensare a come poterle moltiplicare. Incessantemente. Il calcio è un passatempo senza sbocchi. Gioca nell’Haarlem, ma a 18 anni ha già smesso. Meglio essere realistici, meglio pensare ad altro. Perché Mino è bravissimo in una cosa: inventare se stesso. Diventa “intermediatore”, una parola che tiene dentro un mondo intero. “Al ristorante venivano clienti olandesi che non capivano il modo di fare degli italiani – racconterà al Secolo XIX – Commercianti che avevano ordinato merce che non arrivava mai, per esempio. Mi dicevano: Mino, pensaci tu. Io telefonavo. Risolvevo problemi. Ho fondato una società, che si chiamava Intermezzo”.

L’originalità non ancora il suo forte, ma non è un problema. Il ragazzo sembra Re Mida. Tutto quello che tocca diventa oro. Non è lui a cercare le occasioni, sono le occasioni che vengono calamitate da lui. A 18 anni compra un McDonald’s. E lo rivende a una cifra molto più alta. Quel guadagno gli fa capire che le possibilità sono infinte. Il suo ego è pingue, la sua lingua affilata. Due anni dopo imbocca un altro bivio. Tutti i venerdì sera il presidente dell’Haarlem porta la sua terza moglie a cena al ristorante dei Raiola. Mino è un martello. “Di calcio non ci capisci niente”, gli dice. Settimana dopo settimana dopo settimana. Fino a quando il presidente non lo guarda negli occhi e gli dice: “Senti, fai una cosa, provaci tu”. In quella sera Mino diventa il direttore sportivo dell’Haarlem. “Mi sono scontrato con il problema dei problemi. Per fare una squadra ci vogliono i soldi e noi non ne avevamo”. Non il migliore degli scenari possibili. Serve un’altra idea. E anche alla svelta. L’intuizione è fulminea.

I calciatori olandesi si muovono tramite un parametro che è legato all’età. Impossibile fare veri affari con cifre così basse. Mino è tifoso del Napoli. Così telefona a Ferlaino. La proposta è piuttosto semplice: far partire una collaborazione per vendere i giocatori più interessanti dell’Haarlem al Napoli. La prima offerta è anche allettante: Bergkamp a 700 milioni di lire. Ferlaino tentenna, Mino si spazientisce. Gli affari sembrano evaporare, ma è solo una questione di tempo. Raiola ha superato una manciata di esami di Giurisprudenza, ma possiede una cosa che non si studia sui libri: la scaltrezza. Così si accorda con il sindacato dei calciatori olandese. Chi vuole fare acquisti in Eredivisie deve passare da lui. Solo che la sua visione è esattamente opposta a quella dei club. “I vecchi procuratori facevano gli interessi delle società, per me viene prima il calciatore“, racconta. Ed è vero. La sua strategia è chiara: far risparmiare al club acquirente sul costo del cartellino per innalzare lo stipendio dei calciatori. È una rivoluzione copernicana in un mondo dove i calciatori sono considerati dei beni per le società.

“Al Genoa ho portato Marciano Vink – ha detto – Spinelli offriva dieci miliardi di lire. Gli ho detto: presidente, glielo do a due, basta che faccia al mio assistito un contratto più alto rispetto a tutti i suoi compagni. Il mio segreto è quello: far risparmiare alle società a favore del prestatore d’opera”. Leggenda vuole che Spinelli rispose con un “Belin, va benissimo” e staccò l’assegno. È un’intuizione che diventa metodo. Raiola fa e disfa, gonfia e sgonfia prezzi. Per quattordici miliardi vende Bergkamp e Jonk all’Inter come fustini di un detersivo, prendi due paghi uno. E poi Kreek al Padova, Roy al Foggia. I suoi metodi sono spicci, i suoi modo arroganti, le sue trattative spregiudicate. Mino è un generatore di contrasti, uno capace di crearsi amici e nemici in parti non uguali. “Ho tante colpe nella mia carriera e una di queste è di aver introdotto Raiola nel mondo del calcio – ha detto Dario Canovi in un’intervista a Radio Yes – Lui aveva un ristorante vicino alla sede dell’Associazione Nazionale Calcio Olandese e c’era lì un avvocato, il figlio del presidente della società, e i dirigenti andavano a mangiare lì. È per questo che lui è arrivato nel mondo del calcio. Quando fondammo la società di agenti internazionali, arrivò anche lui e così cominciò la sua storia”.

La sua storia è legata a un capovolgimento di ruoli. Non sono più i giocatori che scelgono il loro procuratore. Ora è l’agente che sceglie i giocatori che vuole rappresentare. Per ognuno di loro Mino è tante cose e tutte insieme. Amico, consigliere, factotum. Ma è soprattutto un’assicurazione. È un singolo capace di mettere in difficoltà i club più importati al mondo con trattative estenuanti. La stella cometa è una sola: la felicità del proprio assistito. Uno stato d’animo che passa solo tramite due sentieri: il ritocco dell’ingaggio o la cessione a un club disposto a offrire di più. I calciatori diventano fabbri del proprio destino. I tifosi iniziano a chiamarli mercenari, loro si autodefiniscono professionisti.

Il grande nemico di Raiola si chiama Luciano Moggi. Quando è agli inizi Mino gli chiede un appuntamento. E gli viene concesso. Solo che in sala d’attesa ci sono altre venti persone. Il tempo non passa mai, tanto che il procuratore decide di andarsene. Salvo poi andare a cercare Moggi nel solito ristorante: “Tu non hai avuto rispetto!”, urla contro Moggi. “E lei chi sarebbe?”, risponde l’ex capostazione. “Questo lo vedrai il giorno che vorrai acquistare un giocatore da me”, chiude Mino. Sembra una maledizione uscita da un cartone animato della Disney. Invece è una promessa. Raiola diventa l’antagonista di Luciano. “Mi chiamo Mino e sono contro Moggi”, dice ogni volta che si presenta a qualche figura del calcio italiano. Le cose cambiano con la cessione di Nedved alla Juve. Poi però arriva Ibrahimović. Lo svedese è colpito dai racconti che girano su Raiola. Qualcuno lo ha messo in guardia: quell’agente italiano ha dei modi “mafiosi”. Su di lui girano voci strane. Sembra addirittura che sia un lontano parente di Al Capone. È musica per le orecchie di Zlatan.

Maxwell prova a intercedere. Chiama Raiola e gli spiega la situazione, trova una apertura. Poi Ibra prova a giocare pesante, dice: “Se ha qualcosa da proporre si faccia vivo lui, altrimenti non mi interessa”. Il povero Maxwell fa di nuovo il numero del procuratore. E stavolta si sente rispondere: “Di’ a questo Zlatan di andare affanculo”. È l’incipit di una collaborazione che diventerà grande amicizia. Il primo incontro si svolte all’Hotel Okura. Zlatan cerca un uomo vestito elegante. Ma si sbaglia. “Che razza di uomo era quello che entrò dopo di me? In jeans e t-shirt Nike e con quella pancia enorme, sembrava uno dei Soprano“. Mino non ha esattamente il physique du rôle in un mondo che si basa sulle apparenze. È uno svantaggio che si tramuta in punto di forza. “Vesto così male che quando parliamo di affari tutti mi sottovalutano e io guadagno di più”, dice. Ha ragione. Una sera Evelina Christillin è a cena con Galliani e vede avvicinarsi un tizio piuttosto strano: “Pancia prominente, abbigliamento improbabile con maglia a strisce tendenti al melange, sorrisone da venditore ambulante, parlata con chiaro accento del sud, venato da inflessioni americane. Insomma, un simpaticissimo incrocio tra Peter Clemenza (vi ricordate, il capo regime del Padrino?), Mario Merola e il senatore De Gregorio“.

Quando se ne va Raiola saluta tutti con un: “Vabbé guys, ora parto e vi ringrazio della chiacchierata, scusatemi ancora per come vado in giro conciato, ma a me piace così”. Il trasferimento di Ibra alla Juve assume i contorni del romanzo. Mino è in piedi nell’ufficio di Moggi e deve chiudere la trattativa con i dirigenti dell’Ajax. Solo che Luciano tentenna. Il tempo stringe. Così Raiola si inventa un numero dei suoi: “C’erano un sacco di palloni e di trofei lì dentro, così Mino prese un pallone e iniziò a palleggiare. Era assolutamente folle – Scrive Zlatan nella sua autobiografia – Cosa stava combinando? Non capivo. Quel pallone volava intorno e rimbalzava, colpì anche Moggi sulla testa e sulla spalla. Tutti si chiedevano soltanto: cosa sta facendo? Deve proprio mettersi a fare cazzate adesso? In questa situazione?”. Moggi stizzito si volta e dice: “Piantala, non vedi che fai male?”. Mino ringhia: “Sbrigatevi voi piuttosto”.

Mino diventa il re delle trattative. Quando si mette in testa una cosa, la ottiene. È il nemico dei club e dei loro tifosi. Quando tratta con il Milan il rinnovo di Donnarumma estrae un coniglio dal cilindro. Anzi, due. Gigio guadagna 6 milioni l’anno. Suo fratello Antonio, autentico Carneade del pallone, uno a stagione. Nessuno è riuscito ad attirarsi il disprezzo dei suoi avversari come Raiola. In molti lo considerano un arrogante, altri non hanno fatto altro che sottolineare la sua ignoranza. Anche se in fin dei conti Mino parla sette lingue diverse. E ama paragonare i suoi giocatori a quadri famosi: Matthijs de Ligt a un dipinto di Rembrandt, Ibra alla Gioconda. Nessuno come lui è riuscito ad abbinare così tanta serietà nel proprio lavoro con così poca voglia di prendersi sul serio. Un procuratore inviso a tutti tranne che ai suoi assistiti che ha riscritto i confini della sua professione. Ibra una volta l’ha ribattezzato il “mio meraviglioso ciccione idiota”. Una frase che racchiude un affetto smisurato per un uomo che non potrà fare più miracoli.

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