Il 27 marzo scorso l’Intercity notturno da Przemysl a Kiev era abbastanza pieno, ma più di tre quarti dei passeggeri, donne e bambini, scesero alla stazione di Leopoli. L’esodo al contrario iniziava a prendere forma, ma era ancora limitato all’area occidentale dell’Ucraina. A Kiev in quel periodo la gente si sentiva ancora sotto assedio e la liberazione di Irpin, annunciata di lì a breve avrebbe di fatto liberato la città, scoprendo tuttavia gli orrori della ritirata russa verso la Bielorussia. Alla stazione centrale della capitale la mattina successiva alla partenza scesero soprattutto militari e in generale uomini, ucraini e stranieri, impegnati a vario titolo nel conflitto. Un mese più tardi la situazione è molto cambiata: meno donne, bambini e anziani ucraini scappano verso la Polonia e l’Europa e sempre di più, al contrario, decidono di tornare a casa e riabbracciare i mariti e i figli in guerra: “Ogni giorno, da qualche tempo a questa parte, al Tesco transitano in media 200 persone che chiedono supporto e informazioni per rientrare in Ucraina. Credo che il numero aumenterà“, spiega Karolina Butkiewcz, coordinatrice del centro di accoglienza profughi di Przemysl. “A loro, all’ingresso in Polonia, è garantita la gratuità su tutto, cibo, alloggio, persino le schede sim, compresi i biglietti di autobus e treni per spostarsi in Polonia e ovviamente i trasporti all’estero. Chi decide di tornare indietro, invece, il biglietto se lo deve comprare da solo”.

Gli scompartimenti del treno notturno sono strapieni, neppure un posto vuoto. Durante l’attesa all’esterno dell’area controlli documentali al binario 5, staccato dai binari ‘comunitari’ della stazione polacca, a centinaia si accalcano seguendo però una fila ordinata. A parte sparute eccezioni sono tutte donne, viaggiano con bagagli pesantissimi e devono badare a figli spesso molto piccoli, ma anche a cani e gatti. È il caso di Ludmila: “Sono quattro volte che faccio avanti e indietro dall’Ucraina alla Polonia e viceversa. Quando vedo che a Leopoli si mette male preparo i bagagli, prendo su la mia gatta, la infilo nel trasportino e prendo il primo passaggio per Cracovia dove ho dei parenti. Il mio compagno è impegnato a Leopoli, non può lasciare il Paese e io ho troppa paura”. I controlli doganali si fanno a bordo. Una mezza dozzina di giovani militari donne, così come riscontrato un mese fa, controllano in maniera puntigliosa ogni passaporto e permesso. Dagli schermi del moderno treno delle ferrovie ucraine vengono diffusi dei cartoni animati per tenere buoni i più piccoli mentre le madri sono impegnate in lunghe chiacchierate. Donne sconosciute che trovano nell’empatia femminile il modo migliore per esorcizzare l’ansia della guerra e far trascorre il tempo in maniera meno stancante: “Non vedo l’ora di tornare a casa mia, alla periferia di Kiev”, sostiene Iryna, madre trentenne in viaggio con la figlia di una decina d’anni. “Mio marito sostiene che il peggio è passato, proviamo a vedere se la cosa reale, se si può riprendere la nostra vecchia vita. Sono contenta per mia figlia, le lezioni sono ancora in remoto, ma farle da casa è un’altra cosa”. Quando il treno arriva a Kiev, la destinazione finale, in tarda mattinata, dopo oltre dodici ore di viaggio, dai vagoni esce un fiume di gente. Il cielo è coperto, ma la temperatura mite annuncia la primavera dopo il generale inverno che da queste parti è molto rigido. In cima alla scalinata che dal binario immette nella grande sala d’attesa un ragazzo poco più che ventenne corre incontro alla sua ragazza rientrata dalla Polonia.

Intanto Kharkiv, la seconda città dell’Ucraina, e il suo oblast, tornato pesantemente sotto le bombe. Ormai, assieme a Mariupol e Kherson, è tra le città più colpite dall’offensiva russa. Tra alti e bassi d’intensità, Kharkiv è flagellata dalla fine di febbraio: “I russi sono entrati nel nostro territorio tra il 26 e il 27 febbraio e in pochi giorni hanno occupato una fetta della regione, soprattutto a sud-est. Ci sono decine di villaggi tra cui la mia cittadina, Kupjansk. Sono riuscito a far evacuare la mia famiglia: mia madre e le due sorelle a Kmnel’nitsky e mia moglie in Polonia. I genitori di mia moglie però, più anziani, hanno voluto restare e di loro da un mese e mezzo non sappiamo più nulla. Nel paese non c’è più linea internet, elettricità, l’acqua è razionata”. Nikolay Burjak è al 43° posto del ranking internazionale di karate. Sta rientrando in treno da Uzghorod, città all’estremo occidente sulla linea del penta-confine (Ucraina, Polonia, Slovacchia, Ungheria e Romania), a Poltava, grosso centro a 150km a ovest di Kharkiv, dove si è appoggiato in attesa degli eventi. Condivide lo scompartimento con alcuni compagni della selezione ucraina di karate, ma per il resto il treno è semivuoto. A Kharkiv si combatte sul serio: “Casa mia non c’è più, l’hanno occupata i russi”, racconta Burjak di rientro da un meeting sportivo. “Ancora non riesco a capire il senso di questa aggressione, io stesso parlo russo e continuerò a farlo. Detto questo, ognuno qui è disposto a sacrificarsi per combattere il nemico, fino alle estreme conseguenze. La nostra libertà è anche quella di poter parlare una lingua diversa e questa diversità a Putin non va giù. Sono nato in un villaggio sperduto eppure ho potuto girare il mondo grazie al mio sport. Adesso non ho più una casa e un futuro”. Infine la campagna militare: “I russi erano sicuri di prendere anche la grande città, ma la resistenza è strenua. Ci sono combattimenti molto pesanti, giorno e notte, da nord a sud, il fronte cambia sempre tra offensive e controffensive. Mi raccomando, stai attento quando arrivi al fronte”.

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