Ora c’è l’ordine di estradizione, emesso dalla Westminster Magistrates Court di Londra. Manca solo il via libera del ministro dell’Interno, il super falco Priti Patel, poi Julian Assange sarà deportato negli Stati Uniti: allora assisteremo ad una moderna forma di esecuzione.

Perché questo attende il 50enne australiano ricercato dai tribunali americani per la diffusione, dal 2010, di oltre 700mila documenti riservati sulle attività militari e diplomatiche svolte soprattutto in Iraq e in Afghanistan. L’estradizione è in sé un brutale atto di condanna a morte contro di lui. Non pensiamo solo alle sue gravissime condizioni di salute, provato nel fisico dalla lunga e penosa fuga, o all’accusa di complicità nell’hackeraggio dell’archivio del Pentagono, ma alla legge contro lo spionaggio (l’“Espionage Act” del 1917) invocata dalle autorità statunitensi: prevede una pena monstre di 175 anni di carcere per il whistleblower più noto del mondo. Una legge mai invocata prima d’ora nella storia americana moderna per una vicenda di diffusione di documenti riservati, o anche top secret.

Dopo un inseguimento durato un decennio da parte dei governi Usa, il giornalista australiano pare ormai giunto al capolinea della sua battaglia, sostenuto da una parte dell’opinione pubblica occidentale solidale ma impotente. Il Regno Unito non ha alcun obbligo a trasferire Assange, come qualsiasi altra persona, in un luogo in cui la sua vita o la sua salute sarebbero in pericolo. Il governo di Londra ha assunto la postura di un burocratico esecutore della volontà di Washinghton. “Gli Usa hanno palesemente dichiarato che cambieranno le condizioni di detenzione di Assange quando lo riterranno opportuno. Questa ammissione rischia fortemente di procurare ad Assange danni irreversibili al suo benessere fisico e psicologico”, ha dichiarato Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty International che parla dell’estradizione come una forma di tortura.

La brutalità contro di lui è segno dei tempi: la tutela del segreto è vitale per tutti quegli Stati che vivono facendo le guerre condotte con criteri sofisticati e violenti, fortemente repressivi nei confronti delle popolazioni dei territori invasi. Dalla prima guerra del Golfo in poi le regole sono fortemente cambiate: oltre le linee sono ammessi sono giornalisti embedded perché ciò che viene fatto al di là non deve trapelare, non deve essere raccontato se non in forma edulcorata (ma molti commentatori hanno scoperto la propaganda di guerra solo dopo l’aggressione all’Ucraina).

Penserete alla brutalità della lontana guerra in Vietnam: vero, ma allora il famoso Daniel Ellsberg, che svelò i Pentagon Papers (1967) e le porcherie di quell’invasione, facendo tremare l’establishment americano, non venne condannato neanche a un giorno di carcere, perché la sua libertà di fare informazione fu ritenuta superiore alle leggi sulla riservatezza degli atti pubblici. E non servirono a niente le manovre diversive del segretario alla Difesa McNamara. Il caso Assange è davvero diverso, ed è segno della brutalità dei tempi.

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