Il corpo del geniale editore milanese Giangiacomo Feltrinelli venne ritrovato dilaniato proprio 50 anni fa, in un campo di Cascina Nuova vicino Segrate, sotto il traliccio dell’alta tensione che, pare, volesse sabotare. Era irriconoscibile. Fu un giovane commissario, Luigi Calabresi, a cui il questore Allegra aveva delegato le indagini sull’area della sinistra politica, ad intuire chi fosse, guardando l’immagine della donna ritrovata addosso al cada­vere. Sembrava Sibilla Melega, quarta moglie di Giangiacomo Feltrinelli: sarà lui? Era proprio lui.

Sulle dinamiche della morte restano aperte piste e ipotesi non confermate ma abbastanza suggestive da invitarci a non tirare le somme: forse saltò in aria per colpa della sua imperizia, mentre tentava di sabotare il traliccio dell’Enel e lasciare senza luce la piazza che la sera avrebbe ospitato la festa dell’Unità – aveva lasciato il Pci nel ’58 e lo considerava un partito nemico che aveva abdicato alla lotta di classe. Ma forse quel corpo fu portato lì dopo essere stato ammazzato: a questo punto non lo sapremo mai. E non è che non importi più ma ormai è così.

Adesso conta un’altra consapevolezza: quella che ci deve far collocare Feltrinelli e la sua morte sulla scia di Piazza Fontana, di quel potenziale brutale di violenza scatenato dalla bomba dei gruppi neofascisti e dai loro protettori. La strage del 12 dicembre produsse malefiche radiazioni di terrore che imbrigliarono la società italiana e i suoi straordinari movimenti politici e sociali: di lì nasce il timore di un golpe possibile. Feltrinelli non solo lo temeva, ma sapeva di essere stato prescelto per costruire la finta figura del bombarolo pazzo. Gli Affari riservati tentarono di piazzare nella sua villa i timer usati a Piazza Fontana: fallirono e insistettero, e in modo barbaro.

Dall’Archivio di Umberto Federico D’Amato di Via Appia, sequestrato nel novembre del 1996 dalla magistratura milanese, venne fuori un documento sconcertante che getta una luce sinistra sulla oscura vicenda. Pochi mesi dopo l’episodio di Segrate nel quale l’editore perde la vita, si riunisce a Roma il ”Club di Berna”, un esclusivo consesso delle polizie europee gestito da D’Amato, il quale fa una relazione introduttiva dedicata al quesito: ”perché il Feltrinelli miliardario si è dato alla criminalità?”. Oltre a chiedere aiuto ai colleghi per raccogliere prove dei soggiorni di Feltrinelli all’estero, D’Amato rivela che nel febbraio del 1972 il servizio si era adoperato per pubblicare un libro dal titolo ”Feltrinelli guerriero impotente” (proprio strictu sensu) per spingerlo ad agire concretamente.

“Il libro è stato uno shock psicologico per Feltrinelli che giocava alla rivoluzione senza rischiare in prima persona – dice D’Amato – e deve essersi deciso a dare ai suoi collaboratori la prova che pagava in prima persona, incominciando a partecipare all’azione. Il libro voleva far uscire Feltrinelli allo scoperto e farlo agire sul piano personale rivoluzionario. Suo scopo era di esercitare una vera e propria azione psicologica”. Non suona come una vigliacchissima rivendicazione?

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