All’età di 48 anni, il belga Tom Saintfiet è già stato c.t. di otto nazionali e ha allenato in quindici paesi diversi, dalla Finlandia allo Yemen, dal Bangladesh alle Fær Øer fino al Gambia, dove attualmente lavora, godendosi uno spicchio di improvvisa notorietà per aver condotto gli Scorpioni, espressione del più piccolo stato del continente africano, ai quarti di finale della Coppa d’Africa. Sabato il Gambia affronterà i padroni di casa del Camerun con l’entusiasmo della debuttante, visto che mai prima dell’attuale edizione era riuscito a qualificarsi alla fase finale del torneo. Questa squadra che, prima dell’arrivo di Saintfiet nel 2018, aveva vinto una sola partita ufficiale in cinque anni, e mai era riuscita a ottenere una vittoria in trasferta, ha chiuso la fase a gironi imbattuta, superando poi 1-0 agli ottavi la Guinea. Ha deciso l’incontro Musa Barrow, uno dei quattro giocatori della rosa militanti in Serie A (gioca nel Bologna) assieme a Omar Colley (Sampdoria), Ebrima Colley (Spezia) e Ebrima Darboe (Roma). Ma ci sono anche Sheikh Sibi (Virtus Verona) e Yusupha Bobb (Piacenza) in una selezione composta, come di solito succede alle nazionali dei paesi calcisticamente non di primo piano, da giocatori sparsi tra le serie minori europee e qualche campionato alla periferia dell’impero. “Nella mia nazionale”, ha dichiarato Saintfiet al settimanale belga Knack, “esistono tre tipologie di giocatori: quelli che vogliono emigrare in Europa; gli emigrati; i figli e i nipoti degli emigrati”.

Le esperienze di Saintfiet assomigliano più alla sceneggiatura di un film su Indiana Jones che il bagaglio di una carriera da giramondo per scelta, con tutto ciò che comporta anche a livello di stabilità economica, visto che dove girano pochi soldi i contratti sono di norma più brevi. Per rappresentare lo scollamento esistente tra i vertici del calcio e la base può fungere da esempio una videoconferenza organizzata dalla FIFA in cui Saintfiet si è scontrato con Arsene Wenger. L’ex Arsenal stava illustrando un piano nel quale si intendeva ridurre il numero di partite internazionali concentrando in tre settimane otto partite dei turni di qualificazione, quando il belga prese la parola replicando che con questo sistema “le Federazioni più povere proporranno ai c.t. contratti standard di un mese, perché paesi come il Bangladesh non pagherebbero mai un allenatore che per sei mesi non lavora a causa dell’assenza di partite in programma”. Nello stato asiatico Saintfiet ha lavorato tre mesi restando chiuso in albergo e spostandosi, con la scorta, solo al campo di allenamento. Due giorni dopo aver firmato il contratto con la Federazione, l’Isis aveva fatto esplodere una bomba in un ristorante italiano a Dacca, non lontano dall’hotel dove sarebbe stato l’alloggiato del tecnico. “Quando arrivai in albergo c’erano venti guardie armate di kalashnikov nell’atrio e due per ogni piano, ma mi dissero che se l’Isis avesse attaccato non sarebbero bastate. Il mio agente mi propose di rescindere il contratto, ma decisi di rimanere per tutti i tre mesi pattuiti”.

La qualificazione alla Coppa d’Africa ha creato un fermento enorme in Gambia, paese che, a dispetto del ruolo marginale a livello internazionale, ha sempre nutrito una grande passione nel calcio. Per il primo match ufficiale con Saintfiet in panchina, disputato nel settembre 2018 all’Independence Stadium di Bakau contro l’Algeria, vennero venduti 45mila biglietti nonostante l’impianti potesse ospitare circa 25mila persone. Anche senza scomodare il ricordo dell’Heysel, che per un belga (ma anche un italiano) rimane una ferita aperta, ci furono giocatori quali Ryad Mahrez che, vedendo le persone assembrate lungo le linee di fondo campo o nei pressi delle porte, non volevano giocare. Lo stesso Saintfiet aveva la figlia di due anni in tribuna. Alla fine furono convinti dai funzionari locali che non scendere in campo sarebbe stato peggio. Curioso anche un episodio accaduto durante la preparazione alla Coppa d’Africa; a tre giorni dal calcio d’inizio, la squadra era bloccata in Belgio all’aeroporto di Zaventeem. Per circostanze mai chiarite, il volo privato per raggiungere Douala (non fu scelto un volo di linea per ragioni di sicurezza legate al Covid-19) non era mai stato prenotato. “Affittammo delle camere al vicino hotel Sheraton e ci allenammo nel parcheggio, in jeans. C’erano quattro gradi. Mi sono arrabbiato per l’intoppo? Assolutamente no. I ragazzi avevano dovevano già gestire la grande pressione di partecipare per la prima volta a un grande torneo e non era il caso di aggiungerne altra”. Oltre a quella, strisciante ma non meno snervante, prodotta dalle squadre di club, che non vedono di buon occhio la competizione. Secondo Saintfiet il modo in cui FIFA, UEFA e i top club europei stanno trattando il calcio africano è “semplicemente disgustoso. Nessuno si sognerebbe mai di dire a Kevin De Bruyne che non può partecipare all’Europeo. Non oserebbero nemmeno pensarlo. Parlano di calendari intasati, ma li hanno creati loro. Basterebbe rendere meno accessibili competizioni assurdamente allargate come la Champions League. Perché il calcio africano dovrebbe pagare la sete di denaro del calcio europeo?”

Ebrima Darboe è il giocatore del Gambia che attira maggiori attenzioni, perché è quello della rosa a militare nella squadra di maggior fama internazionale. Secondo il tecnico belga la sua è una storia che unisce talento, perseveranza e una forza mentale straordinaria. “Ho un grande rispetto per il percorso umano e professionale di Darboe. Ha lasciato il suo paese a 14 anni, attraversato il deserto per arrivare in Libia, dove si è imbarcato verso l’Italia. Non conosceva nessuno, si trovava in mezzo a gente poco raccomandabile. Ma è andato avanti, si è fatto notare su un campo di periferia ed è diventato professionista”. Saintfiet afferma che spesso i cosiddetti boat people sono oggetto di stigma tra la gente che hanno lasciato, e per loro tornare indietro è ancora più complicato che partire. Un suo amico lavora in Gambia per le Nazioni Unite a un progetto che mira a mantenere le persone in loco, nonché ad aiutare chi ritorna a reinserirsi nella comunità. Si tratta spesso di persone che hanno speso tutto il patrimonio della famiglia per pagarsi il viaggio verso l’Europa. “Mi ha confessato che tanti preferiscono morire piuttosto che tornare. Certo, chi come Darboe ce la fa diventa un eroe. Ma certi traumi rimangono, e anche dopo aver riabbracciato la sua famiglia che non vedeva da cinque anni, sono cose di cui non parla volentieri”.

Una volta Saintfiet ha raccontato al quotidiano De Standaard di essere stato costretto a fuggire dallo Zimbabwe nascosto nel retro di un furgone, viaggiando per ore nella giungla. La sua esperienza da c.t. si era appena conclusa, ma quantomeno la sua vita era salva. La sua nomina come c.t. dello Zimbabwe, avvenuta qualche settimana prima, non era infatti piaciuta ad alcuni membri della Federcalcio locale, che avrebbero preferito un allenatore autoctono, Norman Mapaza. Fu quindi consegnato al belga un permesso di soggiorno ma non un permesso di lavoro. Un pomeriggio, mentre stava conducendo un allenamento, Saintfiet fu informato dal Segretario Generale della Federcalcio dello Zimbabwe che il presidente Robert Mugabe avrebbe emesso un ordine di arresto nei suoi confronti perché stava lavorando senza avere un regolare permesso. Da qui la fuga verso il confine con il Botswana, distante oltre 500 chilometri. Un’altra esperienza durata pochissimo è stata quella a Trinidad e Tobago, conclusasi con le dimissioni dell’allenatore quando, su 30 giocatori da lui inseriti nella lista, si presentarono in 13. I rimanenti non erano stati convocati dalla Federazione. “Arrivarono solo quelli sotto contratto con il club di proprietà del presidente, che a sua volta era anche il loro procuratore. Presenze in nazionale uguale maggior valore del cartellino. Me ne andai dopo 35 giorni e dovetti sorbirmi i rimproveri anche di mia moglie, perché vivere ai Caraibi non capita tutti i giorni”.

Saintfiet è stato commissario tecnico di Zimbabwe, Etiopia, Yemen, Malawi, Togo, Bangladesh, Trinidad e Tobago, Malta e Gambia, ma ha lavorato anche in Qatar, Giordania, Tanzania, Sudafrica, Germania, Olanda e nei paesi nordici citati a inizio articolo. Non si definisce un drogato di adrenalina e non cerca a tutti i costi il pericolo o l’esperienza esotica. Dice che gli piacerebbe anche un’esperienza in Italia, nelle divisioni inferiori. Basta che ci sia un obiettivo concreto da raggiungere. “Il calcio è vivo solo se c’è in gioco qualcosa. Se diventa routine, non ne vale più la pena”.

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