Fu solo nel maggio del 1957, dopo sedici anni di silenzio mantenuto anche in famiglia, che mia nonna Teta trovò la forza di recarsi dagli archivisti di Yad Vashem a Gerusalemme per consegnare loro la lista dei nostri congiunti spariti nel nulla: Fejga, Syzya, Yaachov, Wolf, Masya, Chewka, Perl, Leib, Israel, Chaja, Moshé, Icek, Aharon… l’elenco continuava fino a registrare venticinque nomi.

Mio padre da bambino andava a trovarli ogni estate a Boryslaw, in quella che oggi è Ucraina, al seguito dei genitori emigrati in Medio Oriente. Scelta provvidenziale: furono gli unici a salvarsi dei Lerner e dei Borgman. Di quei nostri familiari sterminati nel 1941 alla mia generazione è pervenuta solo qualche fotografia ingiallita, oltre che uno strascico di imbarazzati, dolorosi non detti.

Ombre incombenti su noi sopravvissuti. Già tre volte sono andato a cercarle nel bosco di conifere, poche curve all’insù fuori da Boryslaw, alle pendici dei monti Carpazi, dove solo una targhetta arrugginita segnala le fosse comuni in cui giacciono assieme a centinaia di altri ebrei; fucilati dai loro vicini di casa ucraini che si offrivano volentieri al comando delle SS tedesche. Una volta ci sono venuti anche i miei figli. A me che in quel paesaggio desolato cercavo di trovare un qualche fascino, rispondevano inorriditi: “Papà, non lo vedi? Qui fa tutto schifo. Facendo fuori noi ebrei hanno distrutto pure la loro civiltà”.

Scusate la confidenza personale. So bene che ce ne sono milioni di storie famigliari come questa, col loro carico di lacerazioni, malesseri, incomprensioni che ciascuna si trascina, dopo che si è consumato uno sterminio sistematico, che ha più che dimezzato la presenza ebraica in Europa. Cito la mia fra le tante non certo per fare esercizio di vittimismo: in giro ce n’è già troppo. Ma nella Giornata della Memoria è bene dirselo quanto sia faticoso il ricordare; ancora più difficile il raccontare, e non parliamo del trarre insegnamento dal confronto con un Male che ha assunto sembianze umane tecnicamente e scientificamente pianificate.

Non aggiriamola questa fatica, solo perché settantasette anni dopo annaspiamo ancora invano nella ricerca di spiegazioni convincenti del perché un simile orrore abbia avuto libero corso in un continente che si pretendeva civilizzato; caduto preda di un’ossessione razzista legittimata dal fascismo e dal nazionalsocialismo. Continuiamo a cercarle, quelle spiegazioni, anche perché le nostre democrazie traballano. E con sgomento ci accorgiamo che i simboli della malvagità dispiegata allora esercitano ancora un fascino perfino sui ragazzini inscimmiati dai videogiochi.

Continuo a pensare che Furio Colombo abbia avuto ragione quando si è battuto in Parlamento fino a ottenere – nel 2000, con cinque anni di anticipo sulla deliberazione Onu – che si celebri questa Giornata della Memoria.

Un’ultima nota. Nel suo videomessaggio odierno l’ambasciatore di Israele a Roma, Dror Eydar, si è lasciato scappare un’autentica bestialità. Ha detto che la Shoah avrebbe trovato, testuale, “un epilogo riparatore” nella nascita dello Stato ebraico. Nessun epilogo riparatore sarebbe stato concepibile per il genocidio del popolo ebraico. Quando la diplomazia ricorre alla propaganda, almeno lasci in pace i morti, se non vuole cadere nella blasfemia.

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