Nel calcio iper-professionalizzato di oggi, dove miriadi di osservatori setacciano il pianeta pallonaro palmo a palmo, può ancora capitare che un trasferimento avvenga secondo metodi poco ortodossi, talvolta casuali, altre volte attraverso strumenti non propriamente da addetti ai lavori. Il recente caso del passaggio di Lorenzo Insigne al Toronto Fc è solo l’ultimo esempio, con il presidente della franchigia canadese Bill Manning che ha dichiarato di aver individuato nell’azzurro il proprio principale obiettivo di mercato dopo una ricerca sul portale Transfermarkt. Ovviamente Manning non ha avuto bisogno del sito, ideato nel 2000 dal tedesco Mathias Siedel, per conoscere Insigne, ma la mole di dati contenuti, unita alla possibilità di filtrare la ricerca secondo le proprie esigenze, gli ha permesso di ottenere in tempo reale, e senza nessun costo, un elenco di giocatori corrispondenti al profilo cercato, ovvero un nazionale italiano in scadenza di contratto.

Negli ultimi anni ci sono stati trasferimenti dall’origine ancora meno convenzionale di quello di Insigne. Il più noto riguarda il brasiliano Roberto Firmino, scoperto dall’Hoffenheim grazie a Football Manager. Da anni il videogioco manageriale calcistico della Sports Interactive si avvale di una serie di scout che studiano sul campo i calciatori rilevandone valori tecnici, fisici e mentali. Il responsabile dell’area olandese, Jeroen Thijssen, una volta ha raccontato di come non esistano mezze misure nell’approccio dei club a FM. “Alcuni ti aprono le porte anche per una possibile consulenza, perché magari già utilizzano il nostro database, mentre altri non ne vogliono sentir parlare. Questa chiusura può essere reale o simulata, e in quest’ultimo caso significa che essi si avvalgono dei nostri tools ma non vogliono farlo sapere in giro”. Uno scrupolo che non si è fatto l’osservatore dell’Hoffeheim Lutz Pfannestiel, che ha dichiarato di aver notato Firmino su FM e di aver quindi messo in moto tutte le procedure, dalla visione dal vivo del giocatore ai contatti con il club nel quale militava, il Figueirense, per definire l’operazione.

Altrettanto famosa, in Italia, è la storia di Domenico Berardi, notato per una partita a calcetto. L’allora 16enne, che militava nel Castello di Cosenza, si era recato a Modena a trovare il fratello maggiore impegnato negli studi e, durante una partita a calcetto tra amici, fu notato da Luciano Carlini, secondo allenatore della categoria Allievi del Sassuolo, che lo segnalò ai suoi colleghi. Venne contattato per un provino e il resto è storia, il cui apice è rappresentato dall’Europeo vinto la scorsa estate con l’Italia. Prima di quel torneo, l’ultimo gol di un azzurro in una grande competizione fu realizzato da Graziano Pellè all’Europeo 2016. Una maglia che quest’ultimo si è conquistato in tarda età dopo un trasferimento nato sulle spiagge di Ibiza. Pellè si trovava a un punto morto della propria carriera, dopo quattro stagioni difficili in Olanda all’Az Alkmaar e un ritorno in Italia, tra Parma e Sampdoria, tutt’altro che esaltante. In vacanza a Ibiza conobbe un amico del figlio di Ronald Koeman e gli parlò della sua volontà di tornare a giocare in Olanda. Koeman, da un anno alla guida del Feyenoord, stava cercando una punta fisica per sostituire John Guidetti e contattò l’italiano. In due stagioni Pellè segnò reti a caterve, si trasferì in Premier al Southampton e si vestì di azzurro.

Arrivare in nazionale partendo da un reality show sembra più una storia da fiction del sabato sera che non un’impresa reale. In Italia ricordiamo ancora le due edizioni di Campioni, il sogno, reality che vedeva protagonista il Cervia allenato da Ciccio Graziani. Nessuno è diventato un campione né ha avuto una carriera di un certo livello, anche se Cristian Arrieta, pur non avendo mai nemmeno sfiorato la Serie A, ha comunque disputato una ventina di partite con la nazionale di Porto Rico. In Norvegia invece l’unica edizione del reality Proffdrømmen, poi cancellato per il basso numero di spettatori, ha prodotto il futuro capitano della nazionale, Per Ciljan Skjelbred. A differenza di Campioni, il reality norvegese prevedeva una sfida tra una dozzina di ragazzi che, in varie sessioni di allenamento, dovevano mostrare le loro qualità a una giuria composta da nomi importanti del calcio scandinavo. In palio c’era uno stage nelle giovanili del Liverpool. Ma dopo aver riscosso il premio, ovvero una settimana di stage ad Anfield, Skjelbred rifiutò il contratto offertogli dal Liverpool preferendo firmare con il Rosenborg. “Passare dalla quarta divisione norvegese alla Premier sarebbe stato troppo”, disse, “quindi ho preferito un salto più graduale”. Una scelta che gli ha garantito una più che discreta carriera – ancora in corso – tra Tippeliga norvegese e Bundesliga (Amburgo e Hertha Berlino le sua squadre), più 43 presenze in nazionale, con la fascia di capitano indossata per la prima volta nel settembre 2014 a Wembley contro l’Inghilterra.

Non ha invece avuto una grande carriera l’olandese Istvan Bakx, che non è riuscito ad andare oltre le massime divisioni di Belgio, Olanda e Sudafrica, oltre che ad una comparsa con la nazionale olimpica oranje. Tuttavia la sua storia è una delle più bizzarre degli ultimi anni. Nel 2006 Hein Vanhaezebrouck, all’epoca tecnico del Kortrijk, club che militava nella serie cadetta belga, si era ritrovato con un buco nella rosa: mancava un’ala sinistra e il club non aveva né soldi né personale per trovarne una in tempi brevi. Un giorno, mentre navigava in internet nel proprio studio, digitò su Google la parola “linkeraanvaller” (attaccante sinistro) e si imbatté in un link a un sito di un torneo internazionale di dilettanti che si disputava in Olanda. Leggendo le cronache delle partite rimase colpito dai giudizi lusinghieri nei confronti di un certo Istvan Bakx e decise di contattarlo. Bakx ottenne così il suo primo contratto da professionista e l’etichetta di Google spits, l’attaccante di Google, che gli è rimasta appiccicata per tutta la sua carriera.

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