Quando lo stallo durato mesi sul decreto delocalizzazioni (osteggiato da Confindustria e centrodestra e mai approdato in Consiglio dei ministri) aveva portato alla trasformazione in un emendamento all’ultima legge di Bilancio, la scelta della maggioranza era stata subito contestata da lavoratori e sindacati. Perché ritenuta insufficiente, se non inutile. Ora è il Movimento 5 Stelle a riprovarci, presentando al Senato, in collegamento video con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e la viceministra dello Sviluppo economico Alessandra Todde, un nuovo disegno di legge sul tema delocalizzazioni. Con un cambio di prospettiva: il testo, a prima firma dei senatori Sergio Romagnoli e dell’ex ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, non punta su sanzioni e punizioni per le aziende che decidono di delocalizzare, ma sceglie di “premiare le aziende che rimangono sul territorio o riportano le attività produttive in Italia”, come hanno spiegato i proponenti. Ma durante la presentazione c’è stato un fuori programma: qualcuno ha girato il link della piattaforma Zoom ad Alberto Zoratti, responsabile comunicazione del collettivo di fabbrica Gkn, lo stabilimento di Campi Bisenzio i cui lavoratori la scorsa estate erano stati licenziati da un giorno all’altro dal fondo inglese proprietario del gruppo.
Zoratti dunque ha preso la parola e contestato le ultime norme: “L’emendamento approvato non ci soddisfa. Abbiamo più volte ribadito alla viceministra Todde che questa proceduralizzazione delle operazioni ci avrebbe impedito di vincere un articolo 28 e di andare avanti con la nostra mobilitazione. Forse sarebbe stato meglio ascoltare lavoratori e sindacati, perché questo provvedimento non tiene in considerazione le esigenze di chi è rimasto coinvolto nelle vertenze reali”, ha spiegato. E ancora: “Non si risolve con sanzioni, ma soprattutto con sanzioni così piccole. La questione non è essere parte mediana tra imprese e lavoratori, perché così si rischia di peggiorare la situazione di tanti lavoratori”. Una risposta alla Todde che si era detta convinta dell’efficacia dell’emendamento alla manovra in quanto ‘scontenta sia Confindustria che i sindacati“. La viceministra è stata costretta a replicare, ammettendo allo stesso tempo come la soluzione trovata sia un compromesso politico: “Un piccolo passo avanti, non risolutivo sicuramente, ma bisogna tenere conto che viene da una maggioranza eterogenea“, si è difesa. E ancora, rispondendo pure al Fatto sui limiti del provvedimento: “Non si può obbligare un’azienda a rimanere, bisogna invece puntare sulla premialità. Non è corretto dire che si spuntano le armi al sindacato” (la Fiom aveva lamentato l’impossibilità di appellarsi ai tribunali del Lavoro).
Sui tempi del nuovo disegno di legge ovviamente nessuna certezza, con il destino della legislatura a dir poco incerto dopo la partita del voto per il Quirinale: “È vero che sono stretti, ma se vogliamo si possono trovare sinergie e approvarlo in tempi stretti”, ha detto Romagnoli. Secondo cui il testo “vuole completare un percorso sul quale come M5s abbiamo sempre posto la nostra attenzione, già con il Decreto dignità del 2018, sia con l’ultimo emendamento del governo”. Di Maio dal canto suo, in video collegamento, si è detto convinto “che questo sia il percorso giusto, perché premia chi investe. E dobbiamo permettere a tante aziende che in tutto il mondo vogliono investire in Italia di poterlo fare. Conta su di me, dobbiamo riuscire ad approvare questo disegno di legge”.
Todde ha sostenuto che l’emendamento in manovra “permette di ottenere del tempo. Che è quello che bisogna guadagnare quando un’azienda decide di chiudere, perché quello che avviene nell’immediato è la desertificazione del territorio dove questa è inserito. E l’emendamento fa sì che ci siano tre mesi di tempo, l’azienda deve presentare un piano”, ha ricordato la viceministra. Ma già i sindacati avevano avvertito come il tempo rivendicato sia in realtà poco: “Chiunque sta ai tavoli di crisi sa bene che non bastano certo 3 mesi per discutere sul mantenimento delle attività produttive in Italia e non bastano 12 mesi (ovvero, l’attuale cassa integrazione per cessazione) per concludere una reindustrializzazione”, aveva spiegato la segretaria della Fiom Cgil, Francesca Re David. Ma non solo. Anche tanti lavoratori delle principali vertenze, da Whirlpool a Gkn, passando per Timken e Gianetti e non solo, già critici sulle bozze del primo decreto (ispirato alla legge francese Florange, rivelatasi un flop), avevano contestato l’emendamento governativo, che si limitava a raddoppiare i costi del licenziamento. Se nel decreto annunciato a luglio si prevedeva una multa fino al 2% del fatturato, ora si arriva al massimo a 3mila euro a licenziato.
Misure considerate insufficienti soprattutto dai lavoratori Gkn. Gli stessi che avevano già presentato in Parlamento una propria proposta di legge. Elaborata da un gruppo di giuristi e avvocati progressisti, con estensori Matteo Mantero di Potere al popolo e l’ex M5s Yana Chiara Ehm (Misto), e già sostenuta da un gruppo di parlamentari, compreso Nicola Fratoianni di Sinistra italiana. “Le bozze iniziali non erano comunque contro le delocalizzazioni, erano inefficaci. Prevedevano soltanto una procedura. La nostra proposta invece vuole evitare realmente le delocalizzazioni: consentirebbe di decretare l’inefficacia dei licenziamenti, e distinguere la libertà d’impresa dalla volontà invece di distruggere l’impresa”, avevano spiegato al Fattoquotidiano.it, nel corso di un presidio. Una proposta, quella dei lavoratori, che prevedeva anche misure come il parere positivo vincolante degli stessi e la precedenza alle cooperative di operai.
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