Sarà a partire dalla seconda metà di gennaio – probabilmente dal giorno 17 in poi – che cominceranno le votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. La data sarà resa nota martedì prossimo, 4 gennaio, dal presidente della Camera, Roberto Fico, che convocherà il Parlamento in seduta comune per l’elezione del tredicesimo capo dello stato. In base all’articolo 85 della Costituzione, infatti, “trenta giorni prima che scada il termine” del settennato, “il presidente della Camera dei deputati convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali, per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica”. Visto che Sergio Mattarella si è insediato il 3 febbraio 2015, i trenta giorni scattano proprio a partire dal 4 gennaio. Toccherà a Fico decidere la data per la prima votazione. “Ci sono molti precedenti e la situazione generale, li guardiamo e deciderò la data”, ha detto il presidente della Camera a metà dicembre, incontrando i giornalisti per gli auguri di fine anno.

I termini temporali – Proprio in base alla prassi e ai precedenti la seduta dovrebbe essere fissata intorno al 20 gennaio. Fatta eccezione per la prima legislatura repubblicana, quando le Camere si insediarono l’8 maggio e l’elezione per il Capo dello Stato prese il via il 10, in quasi tutte le altre occasioni sono sempre trascorsi tra i 10 e i 20 giorni tra la convocazione e l’inizio del voto. Nel caso della prima elezione di Giorgio Napolitano, nel 2006, per la convocazione si applicò il secondo comma dell’articolo 85 della Costituzione, in base al quale “se le Camere sono sciolte, o manca meno di tre mesi alla loro cessazione, la elezione ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle Camere nuove”. In quell’occasione il mandato di Carlo Azeglio Ciampi scadeva il 18 maggio, ma la nuova legislatura iniziò il 28 aprile. Nel 1964, nel 1978 e nel 1992, dopo le dimissioni, rispettivamente, di Antonio Segni (6 dicembre), Giovanni Leone (15 giugno) e Francesco Cossiga (28 aprile) trovò applicazione invece l’articolo 86 della Costituzione, in base al quale “in caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il presidente della Camera dei deputati indice la elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine previsto se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione”. In questo caso il termine di quindici giorni è stato sempre interpretato come quello entro il quale devono avere luogo l’effettiva riunione del Parlamento e l’inizio delle votazioni.

I numeri: dal quarto scrutinio bastano 504 voti – Come prevede l’articolo 83 della Costituzione il voto per eleggere il presidente della Repubblica è a scrutinio segreto: occorre una maggioranza di due terzi dell’assemblea, ma dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. A questo giro i Grandi elettori sono 1007, cioè il risultato della somma dei 629 deputati (il 630esimo posto è quello del dem Roberto Gualtieri, non ancora sostituito dopo l’elezione a sindaco di Roma) dei 320 senatori (sei a vita e 314 eletti, con un seggio vacante) e 58 delegati locali. Questi ultimi sono la somma dei tre rappresentanti inviati a Roma da ogni Regione: sono due per la maggioranza e uno per l’opposizione, a parte la Val d’Aosta che ha diritto a un solo voto. I delegati regionali non sono stati ancora eletti ma, stando a chi governa le Regioni, dovrebbero essere 33 del centrodestra e 25 al centrosinistra. Visto che come detto nelle prime 3 votazioni serviranno i 2/3 dei voti, quella soglia sarà fissata a 672. Dopo il terzo scrutinio basteranno invece 504 preferenze per salire al Quirinale.

L’incognita Covid – Come è noto la seduta per l’elezione del presidente della Repubblica è unica e si svolge a Montecitorio senza soluzione di continuità per concludersi al momento in cui viene eletto il nuovo Capo dello Stato. Si sono sempre tenutte votazioni tutti i giorni e anche più scrutini nella stessa giornata: una consuetudine che questa volta potrebbe essere modificata a causa del Covid. Solitamente si procede alla chiama di senatori, deputati e delegati regionali, che prima e dopo aver espresso il voto possono rimanere in Aula o in Transatlantico. È possibile che stavolta, come avviene in occasione dei i voti di fiducia, la chiama avverrà in maniera contingentata, evitando soste e assembramenti in Aula. Proprio per evitare un eccessivo affollamento a Montecitorio, almeno inizialmente potrebbe essere previsto un solo scrutinio al giorno, ipotesi comunque tutta da verificare, soprattutto se dovessero rendersi necessarie più votazioni. Per gli stessi motivi bisognerà capire come sarà disciplinato l’accesso al Transatlantico, recentemente riaperto alla stampa dopo essere stato utilizzato per più di un anno come appendice dell’Aula.

Non si potrà discutere in aula – La prassi costante indica che il Parlamento riunito in seduta comune sia soltanto un seggio elettorale che non può discutere o deliberare su altro. La questione fu affrontata proprio in occasione dell’elezione del primo Capo dello Stato dopo l’entrata in vigore della Costituzione. All’indomani dei primi due scrutini, il socialista Antigono Donati chiese una sospensione di mezz’ora per verificare la possibilità di un accordo tra i gruppi politici. Richiesta appoggiata da Palmiro Togliatti, ma contestata da Giuseppe Dossetti, il quale sottolineò che si era in presenza non di “un’adunanza” o di “un’assemblea”, ma “soltanto” di “un seggio elettorale”. Ovviamente non esiste un limite massimo agli scrutinii: si va dalle elezioni al primo colpo di Cossiga e Ciampi, a quella di Giovanni Leone al 23esimo scrutinio. Tra i precedenti noti meritano menzione soprattutto due sedute: quella che portò alla nomina di Giuseppe Saragat, iniziata il 16 dicembre del 1964 e conclusasi il 28, quando i grandi elettori si riunirono anche il 25 dicembre alle 19, dopo che il precedente scrutinio si era svolto la mattina del 24. Forse anche per evitare il voto a Natale nel 1971 senatori, deputati e delegati regionali (per la prima volta al completo) riuscirono ad eleggere Leone alle 13 del 24 dicembre. Ha contorni molto più drammatici, invece, l’elezione del 1992: dopo il quindicesimo scrutinio nella mattinata di sabato 23 maggio andato a vuoto, quello successivo venne fissato per domenica 24 alle 17, ma nel pomeriggio del sabato ci fu l’attentato a Giovanni Falcone. I grandi elettori si riunirono regolarmente, ma dopo la commemorazione delle vittime, in segno di lutto la chiama venne rinviata alle 18.30 del giorno successivo, lunedì 25, quando arrivò l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro. Quell’elezione è nota anche per l’introduzione di una novità che poi è stata utilizzata in tutte le elezioni del Parlamento in seduta comune, come ad esempio quella per i giudici costituzionali e per i componenti del Csm: la presenza di cabine – i cosiddetti “catafalchi” – dove i Grandi elettori devono entrare per esprimere il loro voto. All’epoca la decisione di usare i “catafalchi” venne presa perché durante le prime votazioni emerse una discordanza tra il numero dei votanti e quello delle schede. Dopo aver votato nel “catafalco”, i Grandi elettori sfilano sotto il banco della presidenza e depositano la scheda nell’urna di vimini verde.

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