Prima l’irruzione, le offese, le minacce, le botte. Poi, alla fine, lo stupro di gruppo condito da altre offese a sfondo razziale, in alcuni casi anche di fronte ai figli, in lacrime, che hanno dovuto assistere alla scena. Si assomigliano tutti nella loro drammaticità i racconti fatti da 16 donne della regione etiopica di Amhara che hanno parlato ad Amnesty International delle violenze sessuali subite dai combattenti del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) intorno alla metà di agosto del 2021. Racconti che rappresentano però solo una parte dei 70 casi di stupro riferiti dalle autorità di Nifas Mewcha, città occupata per nove giorni dai miliziani del gruppo, dal 12 al 21 agosto, nel corso dell’offensiva nelle regioni di Ahmara e Afar.

Un modus operandi consolidato, con lo stupro etnico che diventa arma di guerra per umiliare un nemico che i combattenti identificano anche nella popolazione civile inerme. Hamelman ha solo 28 anni ed è madre di due bambini. Con gli operatori della ong, che denuncia i soprusi e le violenze in una guerra tra governo centrale e gruppi ribelli che dura ormai da un anno, ha ripercorso quelle ore: “Sono entrati, ho detto loro di farmi tutto quello che volevano ma di risparmiare i miei due figli – ha detto la giovane – La bambina di due anni dormiva, ma l’altro figlio di dieci era sveglio e ha visto quello che mi hanno fatto. Il primo dei quattro che mi ha stuprato era il loro capo. Urlava che eravamo un popolo di somari, che avevamo massacrato il loro popolo e che dunque ora era giunto il loro turno di stuprarmi”.

Sembra un racconto fotocopia quello fornito invece da Gebeyanesh, che di anni ne ha 30: “Tre di loro mi hanno stuprato mentre i miei figli di dieci e nove anni piangevano. Hanno fatto quello che volevano fare, mi hanno preso a schiaffi e calci, hanno portato via del cibo e se ne sono andati”. Stessa età e identica esperienza vissuta da Meskerem: “Mi hanno stuprato in tre. Dicevano che ero una somara, che potevo sopportare molto più di quello che mi stavano facendo. Sono rimasta priva di sensi per oltre un’ora”.

Bemnet, che di anni ne ha 45, è riuscita invece a mettere in salvo la figlia adolescente, anche lei possibile preda della furia dei miliziani tigrini: “Avevo capito quali erano le loro intenzioni e ho detto a mia figlia di allontanarsi da casa. Sono entrati, mi hanno chiesto di preparare il caffè. Hanno iniziato a chiamarmi ‘somara’, ‘essere inutile’ e poi in tre, a turno, mi hanno stuprata”.

Una violenza sessuale, fisica e psicologica alla quale poi sono seguite le razzie all’interno delle abitazioni. Secondo i racconti delle donne, dopo aver abusato di loro i combattenti che nella loro avanzata sono arrivati a insidiare anche la capitale Addis Abeba si sono appropriati di tutto il cibo, denaro, gioielli e cellulari che sono riusciti a trovare all’interno delle abitazioni. Racconti, i loro, che hanno portato Amnesty a denunciare le azioni del Tplf parlando di “crimini di guerra e, potenzialmente, anche di crimini contro l’umanità“.

In un conflitto che non risparmia la popolazione civile, principale vittima delle scorribande dei vari gruppi presenti nel Paese, a pagare maggiormente sono proprio le donne. Secondo quanto riferito dall’organizzazione, 5 delle 16 che sono state intervistate dagli operatori “hanno sviluppato problemi di salute fisica e mentale come dolori alla schiena, sangue nelle urine, difficoltà a camminare, ansia e depressione. Una di loro, 20 anni, è rimasta incinta a seguito dello stupro ma non riceve cure mediche, come del resto tutte le altre, anche perché l’ong specializzata in questo settore non può entrare nella regione per motivi di sicurezza e a causa dell’ostilità del governo centrale nei confronti dell’assistenza umanitaria”.

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