Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Nella spiaggia di Mondello la mia famiglia aveva la capanna accanto a quella dell’allenatore della Juventus Čestmír Vycpálek. Con mio padre Carlo, che è stato un calciatore di Serie D, e altri due amici giocava sempre a scopone scientifico sotto l’ombrellone. In quelle estati la spiaggia era frequentata anche da Zeman, nipote del mister. Lo ricordo pacato e con la battuta sempre pronta, proprio come lo zio. Nel 2013 sono andato a trovare Zdeněk a Trigoria, si ricordava ogni particolare di quei giorni, mi ha detto che si vedeva che ero più portato per la pallanuoto che non per il calcio”.

Perché Alessandro Campagna, detto Sandro, oggi commissario tecnico della Nazionale italiana di pallanuoto, fino ad una certa ha fatto entrambi gli sport. Poi cosa è successo?
“Nel 1979 a sedici anni e mezzo esordisco in Serie A di pallanuoto. L’allenatore dell’Ortigia Romolo Parodi mi fa entrare sul 3-0 in una partita che dovevamo vincere contro Cagliari. Quando uscii eravamo sul 3-3. Alla fine vincemmo, ma si prese un gran rischio, dimostrando che bisogna sempre avere coraggio. Una lezione che avrei capito una volta diventato allenatore. Allora giocavo anche a calcio, nella pallanuoto stavo a metà strada tra le giovanili e la prima squadra e quella partita mi ha indirizzato la carriera verso lo sport della mia vita. Parodi è stato il mio primo maestro, è stato decisivo”.

Il presidente del Circolo Canottieri Ortigia era Concetto Lo Bello, l’arbitro di calcio più famoso al suo tempo.
“Un uomo lungimirante e di grande professionalità, anche come politico ha lasciato un ricordo bello a Siracusa. Non credeva nello sport professionistico, ma in quello amatoriale. Ci scontrammo pure, a livello ideologico. Io avevo capito che la pallanuoto stava andando in un’altra direzione. Decisi così di andarmene, lui non voleva. Non giocai per qualche settimane, poi dopo l’accordo raggiunto con Roma tornai e salvai la squadra dalla retrocessione. Quando andai a trovarlo in punto di morte, in ospedale mi disse parole dolci e mi fece un bel regalo per il mio matrimonio”.

Nel 1982 arriva l’esordio in Nazionale.
“Grazie al ct Gianni Lonzi. Ma il salto di qualità dal punto di vista tattico lo faccio nel Settebello con Fritz Dennerlein, quello che considero il mio secondo maestro. Allenatore della Canottieri Napoli, per battere la Recco dei Pizzo, Lavoratori e Cevasco si era inventato la zona e infatti la sua squadra negli anni Settanta vince tre scudetti. Fritz è l’Arrigo Sacchi della pallanuoto”.

Nella sua biografia “L’imperatore delle piscine”, scritta con Franco Esposito per Absolutely Free, la prefazione è firmata Ratko Rudić. un altro suo maestro?
“Sì. Fu il primo a introdurre in Italia l’idea di staff e di una preparazione fisica. La palestra la si usava già a metà anni Ottanta, ma con lui diventò un cardine. Puntava allo sviluppo della forza fisica e mentale. Venne incontro ai noi atleti, che ci adattammo ad un modo diverso di giocare. Da pallanuotista è stato bello averlo come allenatore, ti dava sicurezze e la sensazione di avere tutto sotto controllo. Sono stato anche il suo vice e dopo due anni mi ha permesso di allenare le giovanili azzurre, con le quali sono andato a medaglia due volte”.

Si sentiva allenatore anche da giocatore?
“Avevo leadership e una naturale visione di gioco. Senza rendermene conto c’era già la volontà di fare l’allenatore, oltre ad una curiosità innata e a studi Isef. Soprattutto ho avuto la fortuna di avere grandi maestri”.

Il soprannome Settebello è stato utilizzato per la prima volta nel 1948 alle Olimpiadi di Londra e da allora da tutti è chiamato in questo modo. Può spiegare cos’è il Settebello?
“La nazionale è importante in tutti gli sport di squadra, nella pallanuoto ancora di più. Da 80 anni tutti si aspettano qualcosa dal Settebello, questo è un carico di responsabilità per chi ne fa parte. Solo l’Italia e l’Ungheria hanno resistito così tanto tempo all’apice. Anche Croazia e Serbia, se si considera pure il periodo della Jugoslavia unita. Tutte queste ancora più di Russia, Germania e Usa. La popolarità della pallanuoto deve tutto al Settebello, perché il campionato italiano ha dei limiti evidenti. È questo che spiego ai nuovi arrivati in nazionale o nel momento delle grandi sconfitte come ai mondiali di Roma. Noi dobbiamo sempre far innamorare i ragazzini perché continui questa splendida tradizione”.

La finale olimpica di Barcellona nel 1992 con la Spagna è stata una partita epica?
“In vantaggio, raggiunti, superati di nuovo, ancora raggiunti, alla fine abbiamo vinto. Fu una guerra in acqua, con arbitraggio e pubblico contro. Ma ha tenuto la forza mentale di una squadra molto unita, composta da grandi talenti in ogni ruolo”.

Come le riuscì quell’assist in finale?
“Nonostante la stanchezza seppi leggere bene il gioco. Ferretti aveva subito il fallo, ma dalla sua posizione non riusciva a vedere il pallone. Il rischio era che l’arbitro invertisse la punizione, con un giocatore della Spagna era già pronto al contropiede. Con la coda dell’occhio vidi Gandolfi, passai la palla di polso e lui fece un gol stupendo”.

Già in semifinale con la Russia era stato decisivo.
“Ero un rigorista al pari di Fiorillo e Porzio, ma in quel momento Rudić indicò il mio numero. Non ebbi nessuna paura, ero sicuro di fare gol”.

Qualche anno prima c’era stato un altro incontro drammatico a Madrid, finale mondiale con la Jugoslavia.
“All’ottavo tempo supplementare feci una leggerezza che ci costò la partita. Simulai un fallo e venimmo castigati”.

Il 1984 è il suo annus horribilis. Venne coinvolto in una sparatoria appena fuori dalla piscina di Siracusa che rischiò di mettere fine alla sua carriera. Poi seguirono altri due infortuni gravi.
“Quando uscii dalla sala operatoria, chiesi subito quanto tempo mancasse per poter lasciare l’ospedale. Non bisogna mai mollare, i dolori e le sconfitte sono fonte di ispirazione. Ripresi a giocare solo nel 1985, l’anno successivo venni eletto miglior giocatore al mondo”.

Negli anni duemila allenò la Nazionale greca. Che ricordi ha?
“Un ambiente non semplice. Andai solo, senza nessun familiare né componenti del mio staff. Attraverso queste esperienze si cresce molto professionalmente. Portai in Grecia la mia mentalità vincente, non erano abituati. Arrivammo quarti alle Olimpiadi di Atene nel 2004 e terzi nel mondiale del 2005, battendo proprio la Croazia di Rudić”.

La pallanuoto italiana oggi che periodo sta vivendo?
“È il momento di tirare le somme dopo la pandemia, per capire quanti giovani e quante società hanno proseguito l’attività. Io sono fiducioso, il gruppo federale è qualificato, nei club rimane tanta passione. Non ci dobbiamo abbattere per il settimo posto alle Olimpiadi, nel dna del Settebello c’è la ricerca dell’eccellenza”.

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