Ha lasciato che la figlia piccola della sua schiava yazida morisse incatenata, sotto il sole cocente di Fallujah, in Iraq, mentre suo marito, un combattente dello Stato Islamico, la stava punendo per aver bagnato il letto. Così il Tribunale di Monaco di Baviera, in Germania, ha condannato a 10 anni di reclusione la foreign fighter tedesca 30enne Jennifer Wenisch per supporto di un gruppo terroristico, concorso in tentato omicidio e in tentati crimini di guerra e per crimini contro l’umanità. È stata lei la prima combattente straniera delle Bandiere Nere portata alla sbarra, ma nel corso dei due anni di processo ci sono state altre condanne.

La storia di Wenisch è molto simile a quella di altre ex aderenti a Isis: senza un’istruzione e un lavoro, un patrigno con cui non ha punti di contatto e una madre in perenne conflitto, scopre una fascinazione per l’Islam che sfocia poi in una conversione. Un processo, questo, che va oltre il semplice avvicinamento spirituale a una nuova religione, con la donna che rimane ammaliata dalla propaganda dei miliziani in nero e che nel 2014 decide di entrare in Siria attraverso la Turchia. Si sposa una prima volta con un combattente, ma divorzia. Torna in una delle case per donne dove Isis raccoglie le future spose per i propri guerrieri, percepisce uno stipendio di 70 dollari al mese finché non conosce il suo secondo marito, il predicatore Taha al-Jumailly, e con lui, viaggia da Raqqa a Mosul fino a Fallujah. Al-Jumailly porta con loro una schiava yazida, Nora T., e la figlioletta della donna.

Nora era stata deportata assieme alla piccola: dei suoi figli non sa più nulla, mentre il marito e la famiglia sono stati tutti ammazzati dalle Bandiere Nere. È già stata venduta più volte, stuprata e annientata psicologicamente. Col nuovo padrone le percosse sono quasi quotidiane. Alla sua bimba viene dato un nuovo nome che sia idoneo alla dottrina coranica, è percossa anche lei se non piega bene la testa pregando. Le condizioni igieniche in cui sono tenute sono scarse e la bimba un giorno urina sul materasso. Per punizione la madre deve uscire e stare a piedi nudi nel cortile, con il selciato che brucia. Può rientrare ma è la volta della piccola: al-Jumailly la lega stretta all’intelaiatura della finestra, le braccia sopra il capo, i piedi che non arrivano a toccare la soglia. Wenisch capisce che la bimba rischia di morire, ci sono quasi 50 gradi, ma non fa nulla e la piccola dopo un po’ perde conoscenza. Solo allora al-Jumailly la riporta dentro, ma non apre più la bocca per bere. Così l’uomo la porta in ospedale e lascia Wenisch e Nora da sole. Nora piange e si dispera, ma la sua padrona le punta una rivoltella alla tempia per farla tacere. Dopo qualche giorno, al-Jumailly torna insieme ad altri combattenti di Isis: Nora deve andare con loro.

Secondo quanto ricostruito, anche grazie alla ong Yazda, c’è stato un processo di fronte a un tribunale di Daesh e al-Jumailly è stato ritenuto colpevole della morte della piccola. Dove si trovi il corpo della bambina, però, non si sa. Si scoprirà che al-Jumailly è riuscito a convincere i suoi carcerieri a rilasciarlo e scappa in Turchia dove si riunisce alla famiglia. Wenisch lo segue e si fa raggiugere dalla madre: vuole registrarsi e va a chiedere i documenti all’ambasciata tedesca, dove però viene arrestata e successivamente rimpatriata in Germania, dove partorirà la figlia di al-Jumailly. L’uomo entrerà in contatto più volte con lei, Wenisch racconta che lo teme, che le chiede soldi, che la minaccia di rapire la figlia e cerca in rete aiuto per ottenere il divorzio. Confessa a un’altra ex militante che c’è stato un processo di Daesh al marito perché aveva lasciato morire la bambina. Cerca di tornare ancora in Siria con la bimba di due anni, ma non sa che il suo contatto è un informatore dei servizi segreti statunitensi che registra tutti i colloqui. Wenisch confessa ancora una volta che il marito ha lasciato morire la loro piccola schiava, che lei gli aveva detto che sarebbe morta ma a lui non importava, era solo una schiava. Racconta di aver avuto un ruolo di rilievo nell’organizzazione dello Stato islamico di Fallujah, facendo parte della polizia del costume di Isis che si occupava di far rispettare i dettami del gruppo alle donne. Così, viene arrestata in una stazione di servizio.

Ad inchiodarla le sue stesse confessioni, ma in aula tace a lungo. Solo verso la fine del processo decide di prendere posizione e racconta che aveva mischiato menzogne con la realtà, aveva cercato di rendersi più importante per ottenere aiuti. I suoi avvocati fanno di tutto per scagionarla. Cercano di far valere documenti ospedalieri che testimonierebbero che la bimba ha lasciato l’ospedale viva, ma i giudici li ritengono incompatibili con lo svolgimento dei fatti.

I togati invece hanno creduto in pieno al suo racconto precedente, ma riconoscono che all’epoca Isis aveva già effettuato l’attacco contro gli yazidi nell’area di Sinjar, da dove provenivano le due schiave, che non ha acquistato lei le due donne e che quando voleva tornare in Siria Isis era già in disfatta. Wenisch, ha testimoniato un’altra ex combattente, comunque non avrebbe mai voluto occuparsi delle vicende domestiche: era chiaro che Nora T e la figlia erano state in casa sua e lei ne aveva approfittato. Per la corte presieduta dal giudice Baier, Wenisch non ha fatto nulla per evitare la morte della bimba, una persona bisognosa di tutela secondo il diritto internazionale e che lei avrebbe dovuto garantire. I giudici hanno tuttavia riconosciuto una colpa ridotta e perciò declinato la richiesta della procura generale all’ergastolo. Siccome è incensurata, ha una figlia di 5 anni ed è in carcere preventivo già da 3 anni e 4 mesi, in caso di buona condotta potrebbe uscire scontando due terzi della pena. Per questo la difesa considera questa sentenza un risultato non negativo, anche se ha già annunciato che ricorrerà in appello, visto che aveva chiesto solo una condanna a due anni.

Per la procuratrice generale Claudia Gorf le tesi dell’accusa sono state tutte confermate. L’avvocatessa Natalie von Wistinghausen, che rappresenta Nora T con il collega Wolfgang Bendler e l’avvocatessa Amal Clooney, ha dichiarato che la sua cliente è soddisfatta che almeno una dei responsabili della morte della figlia sia stata giudicata colpevole. Si riserva però di presentare appello: avevano chiesto una condanna per concorso in omicidio, invece i giudici hanno individuato solo il tentato omicidio perché non si è potuto appurare il momento della morte. La loro assistita ha ottenuto il diritto a un risarcimento dei danni psicofisici ma la Corte ha subordinato la sua determinazione ad una perizia. Una causa civile per determinarne l’entità potrà essere iniziata solo dopo il deposito delle motivazioni scritte della sentenza.

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