“Il ruolo cruciale degli operatori sanitari e sociosanitari nelle case di riposo non è socialmente e politicamente valorizzato. Sempre più donne e persone migranti lavorano in questo settore in condizioni molto precarie. Gli stipendi sono molto bassi in tutto il settore sociosanitario e socioassistenziale, nonostante l’alta utilità sociale del lavoro di cura“.

A denunciarlo ad Amnesty International è stato un rappresentante del sindacato Nidil-Cgil. Dopol’analisi sulla segregazione degli anziani del 2020, l’organizzazione per i diritti umani quest’anno ha stilato un dettagliato (e spietato) report sulle condizioni di lavoro di chi si occupa della fascia più fragile della popolazione, gli anziani non autosufficienti, sottolineando come i buchi neri degli operai dell’assistenza che erano stati sollevati già prima dello scoppio della pandemia, con il Covid si sono aggravati e gli allarmi di sindacati e lavoratori “non sono stati ascoltati dalle autorità“.

Esemplare il racconto del settembre 2020 di un’infermiera con contratto diretto presso una struttura pubblica di Milano. “Ultimamente ci sono state varie ritorsioni [contro lavoratrici e lavoratori] e siamo tutti in massima allerta. Ci avevano detto di non usare le mascherine per non creare panico a utenti e famiglie, ma eravamo già in pieno Covid, verso fine febbraio o inizio marzo [2020] – ha detto ad Amnesty – Ci siamo ribellati e abbiamo fatto denuncia contro la persona che ci ha ammonito di non usare le mascherine. Io sono stata messa in quarantena preventiva per motivi politici e al rientro ho dovuto fare il tampone. Anche altri colleghi sono stati allontanati in questo modo. Le ripercussioni sono iniziate subito dopo le denunce. Spesso colleghi sono stati spostati di reparto e allontanati come ritorsione. Anche io ho ricevuto una misura disciplinare per aver partecipato a una manifestazione”.

“CONDIZIONI DI LAVORO IRRISPETTOSE DELLA SALUTE” – Il personale in servizio nelle strutture residenziali durante la pandemia e i sindacati hanno espresso “gravi preoccupazioni in merito alle condizioni di lavoro irrispettose della salute e della sicurezza, ai lunghi turni senza adeguate pause e alle ispezioni sul lavoro inadeguate“, si legge nel report che citando statistiche ufficiali sottolinea come i tassi di morbilità e di mortalità del personale sanitario e sociosanitario siano molto alti.

Gli esempi e i racconti sono solo variazioni sul tema e datano anche al 2021. Quasi un terzo di tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori intervistati (11 su 34) ha espresso preoccupazione riguardo a un clima di terrore e di ritorsioni sul luogo di lavoro, in particolare durante la pandemia. Tre di loro sono stati soggetti a procedimenti disciplinari, compreso il licenziamento, dopo aver denunciato irregolarità nelle strutture presso le quali lavoravano durante la pandemia. Altri otto si sono detti preoccupati.

“Questo sembra parte di una tendenza più generale: due avvocati intervistati da Amnesty International hanno denunciato più di dieci casi di procedimenti disciplinari e licenziamenti subiti dai lavoratori e dalle lavoratrici in diverse strutture, dopo che avevano segnalato l’assenza di misure adeguate a tutelare la salute e la sicurezza durante la prima ondata della pandemia – nota l’organizzazione -. Queste testimonianze sono particolarmente allarmanti nel contesto della pandemia, poiché la libertà d’espressione e l’attività sindacale sono elementi che migliorano le condizioni di salute e sicurezza sul lavoro”.

LA CAMPAGNA VACCINALE NON HA CANCELLATO I PROBLEMI – E così Amnesty con la pubblicazione del rapporto chiede al parlamento italiano di “portare a termine le fasi necessarie per istituire una commissione d’inchiesta indipendente che indaghi sulla risposta delle autorità alla pandemia da COVID-19; tale commissione dovrà inoltre avere uno specifico focus sulle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali e prendere in seria considerazione le gravi preoccupazioni espresse da lavoratrici, lavoratori e sindacati”.

Sebbene la campagna di vaccinazione, che ha dato la priorità a chi vive e lavora nelle strutture residenziali, abbia avuto l’effetto di diminuire la morbilità e la mortalità, “le preoccupazioni legate alla situazione pregressa del settore sono rimaste inascoltate e devono essere urgentemente prese in esame dalla commissione parlamentare”, rileva ancora Amnesty. Ricordando che il settore sociosanitario e socioassistenziale è altamente femminilizzato: circa l’85 per cento delle persone che ci lavorano sono donne e il 12% ha un background migratorio. Molti di loro sono precari e lavorano part time, con contratti a tempo determinato e/o in esterni e/o somministrati ad agenzie. Gli stipendi sono sensibilmente più bassi rispetto a quelli del settore sanitario pubblico: se il compenso orario medio negli ospedali pubblici è di circa 15 euro, nel sociosanitario e socioassistenziale scende a circa 11 euro.

Secondo un rappresentante del sindacato di base Usb (Unione sindacale di base), la diversità di contratti e di status tra i lavoratori sociosanitari e socioassistenziali ha contribuito a creare un grande isolamento tra i singoli. Lo stesso sindacato ha sottolineato che la frammentazione acuisce le divisioni e indebolisce gli strumenti di difesa dalle rappresaglie.

IL SILENZIO DI MINISTERO E ISPETTORATO DEL LAVORO – D’altro canto il silenzio delle autorità non stupisce se si pensa che Amnesty International ha richiesto un incontro con i quattro principali enti che rappresentano le strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali private in Italia, ma alla data della pubblicazione del rapporto (ottobre 2021), non aveva ricevuto risposta. L’organizzazione per i diritti umani ha anche chiesto un incontro con l’Ispettorato nazionale del lavoro, che finora non ha risposto. Prima della pubblicazione, Amnesty ha inoltre condiviso questo briefing con il ministero del Lavoro e delle politiche sociali e con l’Ispettorato nazionale del lavoro, al fine di offrire loro la possibilità di commentarlo. E “al momento della pubblicazione, le suddette autorità non avevano risposto”, è la chiosa.

Invece sarebbe il caso di occuparsene, visto che si tratta di manodopera rara e preziosa. Secondo l’Ocse, in Italia ci sono circa due operatori sociosanitari ogni 100 persone maggiori di 65 anni: una delle percentuali più basse dell’area Ocse, in cui la media è di cinque ogni 100 ultrasessantacinquenni. Per quanto il numero di operatori sia leggermente aumentato tra il 2009 e il 2019, passando da 22 a 23 ogni 1000 abitanti, rimane comunque molto più basso della media europea, che era 32 ogni 1000 nel 2019. La carenza di personale nel settore sociosanitario e socioassistenziale in Italia è destinata solo ad aggravarsi: la popolazione italiana, infatti, attualmente la più anziana d’Europa, continuerà a invecchiare a ritmo rapido e le stime prevedono che nel 2050 più del 45 per cento della popolazione avrà almeno 55 anni. È la previsione con l’età più alta di tutta l’Europa

I CONTRATTI A TUTTA DISCREZIONALITÀ – La maggior parte delle 7.372 strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali in Italia è privata: quasi il 25 per cento è di proprietà di aziende, il 48 per cento è di fondazioni senza scopo di lucro, mentre il 26,7 per cento appartiene ad autorità pubbliche (comuni o altri enti come le cosiddette “aziende pubbliche servizi alla persona”). “Tali strutture fanno largo uso di collaboratori esterni che sono sotto contratto con cooperative, di lavoratori con contratti somministrati dalle agenzie interinali e di liberi professionisti o partite iva – ricostruisce Amnesty -: l’impiego di queste tre categorie di lavoratori in outsourcing è una strategia molto diffusa per supplire alle carenze di organico nel settore sociosanitario e socioassistenziale”. La Cgil stima che queste tipologie di contratti riguardino circa 380mila persone.

Un esempio delle implicazioni. In base a uno dei contratti collettivi più applicati il massimo del monte orario è di 38 ore a settimana, calcolato come media annuale: ovvero, se una settimana dovessero lavorare più di 38 ore, in un’altra dovranno lavorare di meno; in ogni caso, non possono lavorare più di 38 ore per più di sei settimane di seguito e hanno diritto a un minimo di 11 ore di riposo al giorno e a un giorno di riposo a settimana. In base a uno dei contratti collettivi più applicati dalle cooperative, invece, il monte orario medio è sempre di 38 ore, ma possono essere richieste 10 ore di straordinari a settimana, che i lavoratori recupereranno sotto forma di periodi di riposo compensativi entro sei mesi; inoltre, le ore di riposo giornaliere alle quali hanno diritto sono di solito 11, ma in alcuni casi possono essere ridotte a otto.

Le strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali, conclude Amnesty, godono di un “ampio margine di discrezionalità nella scelta dei rapporti contrattuali da applicare col personale: possono assumerlo direttamente, ricorrere a collaboratori esterni tramite cooperative, rivolgersi ad agenzie di somministrazione e/o pagare i servizi di liberi professionisti, come infermieri e fisioterapisti”.

IL GOVERNO HA TOLTO PERSONALE SENZA COMPENSARE – Durante la pandemia le carenze di organico strutturali del settore sociosanitario si sono poi aggravate e perdurano ancora adesso nell’indifferenza generale. Alimentata anche dall’indirizzo politico prevalente che punta allo smantellamento dell’assistenza residenziale, senza però curarsi di chi si trova ancora in questo sistema e non può uscirne. Non ha certo aiutato il fatto che da marzo 2020, il governo italiano abbia lanciato una serie di assunzioni straordinarie di operatori sanitari negli ospedali pubblici per far fronte al numero crescente di pazienti affetti da COVID-19 che necessitavano di cure ospedaliere. “Sebbene non siano disponibili dati ufficiali, i sindacati hanno sottolineato che migliaia di medici, infermieri e operatori che lavoravano in strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali per persone anziane sono stati assunti, a tempo determinato o indeterminato, dagli ospedali pubblici”, nota Amnesty.

Molti operatori sanitari e sociosanitari hanno deciso di lavorare negli ospedali pubblici per questioni salariali e di prestigio. In più, come ha spiegato ad Amnesty un rappresentante della Cisl, “i turni nelle case di riposo sono estenuanti e c’è molta più pressione per le regole sui minutaggi da dedicare agli ospiti”. Questa campagna di assunzioni straordinarie nella sanità pubblica, tuttavia, “non è stata accompagnata da misure complementari che assicurassero il mantenimento di un organico sufficiente nelle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali, nonostante i numeri già bassi di personale impiegato in questo settore e nonostante la presenza di persone particolarmente a rischio in caso di contagio da COVID-19 e particolarmente bisognose di cure, nonché aventi diritto alle stesse”, punta il dito l’organizzazione.

STANDARD IN PICCHIATA – Un membro della Cisl in Lombardia ha dichiarato che “il problema principale ha riguardato gli infermieri, che sono stati massivamente assunti dal settore sanitario pubblico, lasciando le case di cura prosciugate e costrette a contare su pochi infermieri per garantire servizi molto basici con turni di lavoro insopportabili”. In alcuni casi, le autorità hanno adottato politiche che consentivano alle strutture di assumere operatori che non avevano ancora terminato il percorso di formazione o personale meno qualificato, con un conseguente abbassamento ulteriore degli standard. Un rappresentante regionale di Usb ha a tal proposito dichiarato che “in alcuni casi, queste politiche hanno abbassato la qualità dell’assistenza fornita agli anziani e aumentato il carico di lavoro degli operatori sanitari e sociosanitari più esperti, che dovevano fornire supervisione al personale appena assunto”.

E in effetti tutti gli addetti intervistati hanno evidenziato che le carenze di personale nelle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali, aggravate dalle assunzioni straordinarie nella sanità pubblica e dall’alto numero di congedi per malattia proprio a causa del Covid-19, hanno avuto come risultato orari di lavoro prolungati e turni di notte per più giornate di seguito senza adeguati periodi di riposo. Tutti hanno raccontato che i loro turni di lavoro erano diventati più lunghi, più faticosi e più stressanti durante la pandemia. In più, hanno spesso dovuto svolgere più mansioni di quelle indicate nei loro contratti.

“Anche prima della pandemia, avevamo un solo Oss ogni 20 ospiti ed era impegnativo perché avevamo sette minuti al massimo da dedicare ad ogni ospite. Sembrava già una catena di montaggio, era pesante fisicamente e psicologicamente. C’era un continuo ricambio di operatori sanitari anche prima. Durante la pandemia, abbiamo visto una pesante carenza di personale dopo che molti operatori si sono infettati, aggravata dall’assenza delle famiglie dopo che le visite esterne sono state vietate e dall’assunzione di operatori nel settore sanitario. Siamo rimasti con tre lavoratori
invece di 10, con turni estenuanti”, è il racconto di una oss di Bologna.

Un delegato sindacale di Milano ancora a settembre 2021 raccontava inoltre che “a causa della mancanza di infermieri, i turni vengono sistematicamente coperti da straordinari o da staff spostato da altri reparti. Molti operatori sanitari e sociosanitari sono obbligati a fare doppi turni e lavorare anche fino a 17 giorni continuativi senza il dovuto riposo. Inoltre, in molti casi, le dirigenze delle case di riposo non applicano il Documento di valutazione dei rischi che è obbligatorio per legge. Tanti infermieri stanno andando in burn-out e si stanno dimettendo”.

MENO ISPEZIONI E PIÙ BUROCRAZIA – Amnesty rileva che il contraltare sia una diminuzione delle ispezioni del lavoro e, per quanto riguarda quelle delle Asl, le testimonianze raccolte indicano come “si siano concentrate su aspetti amministrativi e procedurali e che non siano servite a individuare inadempienze nei confronti delle norme in materia di salute e sicurezza”.

Il Covid ha imposto “un costo altissimo da pagare, sia alle persone anziane residenti in strutture sociosanitarie e socioassistenziali, sia al personale che se ne prende cura“, rileva infine Amnesty chiedendo che la commissione d’inchiesta indaghi tra le varie questioni, su “la salute e la sicurezza nelle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali durante la pandemia, compresa l’effettiva efficacia del quadro nazionale su salute e sicurezza sul lavoro; gli alti tassi di morbilità e mortalità nelle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali; le violazioni e gli abusi del diritto alla vita, alla salute e alla non discriminazione subiti dalle persone anziane; i problemi sollevati dai/dalle lavoratori/trici delle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali circa la mancanza di un ambiente di lavoro sano e sicuro e di condizioni di lavoro eque e dignitose; il legame tra queste criticità e quelle che il settore soffre da lunga data, come la carenza di personale, le cattive condizioni di lavoro e il divario retributivo di genere; le violazioni e gli abusi del diritto alla libertà d’espressione e di associazione subiti dai/dalle lavoratori/trici delle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali durante la pandemia”.

UNA COMMISSIONE PARLAMENTARE ASCOLTI TUTTI GLI INTERESSATI – La commissione “dovrebbe anche ascoltare attentamente gli/le operatori/trici sanitari/e e sociosanitari/e, i sindacati, le organizzazioni di datori di lavoro e quelle che rappresentano le persone anziane e le loro famiglie“, precisa Amnesty aggiungendo delle raccomandazioni al parlamento che dovrebbe “perfezionare l’attuale quadro giuridico sul whistleblowing”, dando maggiori garanzie e tutele a chi fa le segnalazioni. Il ministero del Lavoro e delle politiche sociali dovrebbe invece “assicurare adeguate risorse per l’Ispettorato nazionale del lavoro per garantire il rispetto e l’applicazione della legislazione sul lavoro” e valuta un rafforzamento del “sistema di ispezioni nel settore sociosanitario e socioassistenziale”. Quanto alle autorità statali il monito è di astenersi dal violare il diritto di espressione dei lavoratori, proteggerlo dagli abusi dei privati e adottare misure positive per realizzare questi diritti, in linea con le leggi e gli standard internazionali sui diritti umani.

Articolo Precedente

Non Una Di Meno in piazza per chiedere il riconoscimento di vulvodinia, endometriosi e delle “patologie poco studiate dalla medicina”

next
Articolo Successivo

Cucchi, la sorella Ilaria a 12 anni dalla morte: “Stefano non è più solo nostro, ma dell’intera collettività. Oggi ci battiamo per i diritti di tutti”

next