Con la sentenza del suo Tribunale Costituzionale, la Polonia compie un passo deciso verso quella che alcuni analisti di diritto comunitario chiamano “Polexit legale”: il Paese resta membro dell’Unione europea, ma scivola fuori dalla cooperazione a livello giudiziario, uno dei cardini dell’Ue. La parte cruciale del dispositivo della sentenza è il punto 3, in cui si afferma che la Costituzione polacca è incompatibile con gli articoli 2 e 19 del Trattato sull’Unione europea. In passato sono già avvenute tensioni dovute a interpretazioni discordanti tra il tribunale costituzionale di uno Stato membro e la Corte di Giustizia Ue, ma mai una corte nazionale aveva toccato direttamente il trattato fondante dell’Unione. L’articolo 19 è quello che “assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati” e poggia a sua volta sull’articolo 2, per cui l’Unione si fonda sul rispetto dello stato di diritto. Secondo la sentenza, queste disposizioni comunitarie sono inconciliabili con alcuni articoli del testo costituzionale, con riferimento in particolare alla verifica dell’indipendenza della magistratura.

Attuando un principio giuridico detto di controlimiti, in sostanza il tribunale afferma che quanto stabilito dalla propria costituzione non può essere questionato nemmeno dal diritto comunitario. “In pratica, questo giudizio equivale a un rifiuto dei valori fondamentali su cui si basa l’Ue”, spiega a Ilfattoquotidiano.it la docente di Stato di Diritto dell’università polacca di Toruń, Aleksandra Kustra-Rogatka. Il problema è che il Trattato dell’Ue è stato sottoscritto dalla Polonia e la costituzione polacca richiede una necessaria modifica prima che il Paese ratifichi un trattato incompatibile con i suoi principi. Questa incompatibilità, invece, è emersa a 17 anni dalla firma.

La decisione del Tribunale costituzionale apre quindi uno scenario inedito. “È importante ricordare che quest’organo è sotto stretta influenza del potere politico e non soddisfa gli standard di un tribunale indipendente”, afferma l’accademica. Proprio con il controllo del Tribunale costituzionale è cominciata infatti la scalata all’indipendenza della magistratura da parte di Diritto e Giustizia (PiS), il partito di governo. La Corte costituzionale polacca è formata da 15 giudici scelti dal Parlamento e nominati per un mandato di nove anni dal presidente della Repubblica. Quando, nel 2015, Andrzej Duda vinse le elezioni presidenziali e il PiS quelle parlamentari, il governo cominciò a sostituire i membri della Corte con giudici compiacenti. Disponendo di un Tribunale costituzionale “addomesticato”, il PiS ha potuto portare avanti quella riforma della giustizia tanto contestata dalle istituzioni europee e in diverse sue parti sanzionata dalla Corte di Giustizia dell’Ue.

Secondo Arianna Angeli, docente di Diritto Pubblico Comparato all’università degli studi di Milano ed esperta della questione, nell’ultimo pronunciamento c’entra molto anche la caratura della presidente del Tribunale costituzionale, Julia Przyłębska. Che non è solo “allineata” al potere politico, ma anche poco stimata nell’ambiente giudiziario. “Al contrario di Małgorzata Manowska, che presiede la Corte Suprema, Przyłębska non è una giurista di rilievo e la sua nomina è stata fortemente contestata”.

Forse per eccesso di zelo, la giudice si è spinta troppo oltre. Perché questa sentenza potrebbe segnare la fine della collaborazione tra la giustizia polacca e quella degli altri Stati Ue. La cooperazione in materia giudiziaria è uno dei collanti dell’Ue ed è fondamentale per il mercato unico perché garantisce di fatto gli stessi diritti a tutti i cittadini e alle aziende europee, a prescindere dal Paese in cui si trovino. Se uno degli Stati Membri non è più considerato “in linea” con il rispetto di questi diritti, le sentenze dei suoi tribunali possono essere contestate da quelli degli altri Paesi, spiega la docente dell’ateneo milanese.

Ma il governo di Varsavia potrebbe anche evitare di arroccarsi sulla sentenza. Proprio perché esercita un controllo politico sulle decisioni della Corte, l’esecutivo guidato da Mateusz Morawiecki, e manovrato in realtà da Jarosław Kaczyński, ne utilizza i pronunciamenti a propria convenienza. L’anno scorso, ad esempio, attese tre mesi prima di pubblicare il giudizio sul diritto all’aborto, che dichiarava incompatibile con la costituzione l’interruzione di gravidanza in caso di malformazione del feto. “Fino a che una sentenza non viene pubblicata sul giornale ufficiale, non è in vigore”, dice Angeli. In questo caso una tattica dilatoria servirebbe ad ammorbidire lo scontro con la Commissione europea, che a poche ore dalla notizia del giudizio ha riaffermato con un comunicato “la supremazia del diritto comunitario” e ribadito che “le sentenze della Corte di Giustizia Ue sono vincolanti per tutti gli Stati membri”.

Aleksandra Kustra-Rogatka, che da Toruń ha il polso anche dell’opinione pubblica del suo Paese, tende a comunque escludere l’uscita della Polonia dall’Ue, cosa che tra l’altro potrebbe avvenire solo per decisione di Varsavia, visto che non esiste nel Trattato alcun modo per “espellere” uno Stato Membro. “La società polacca è ancora in larga parte favorevole all’Europa e vediamo chiaramente i benefici di essere parte dell’Ue”. Anche se la propaganda governativa euroscettica sta lavorando a pieno regime e la recente esperienza della Brexit insegna che nulla può essere scartato a priori, la docente è convinta che lo scenario più plausibile sia una sorta di “limbo”, in cui “la Polonia rimane formalmente nell’Ue, mentre cerca di vanificare l’efficacia di quegli strumenti nella cornice legale comunitaria che impedirebbero al governo di portare avanti la sua visione del Paese. Quella cioè di una democrazia illiberale”. Resta da vedere fino a quando le istituzioni europee accetteranno questa situazione e cosa faranno per cambiarla.

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