Il settore oil&gas e quello difesa influenzano la didattica e la ricerca universitaria? E i big dei due settori, da una parte Eni dall’altra Leonardo, quanto denaro danno agli atenei italiani per accordi di collaborazione, corsi di laurea o borse di studio? Due domande lecite e di interesse pubblico cui l’associazione ambientalista Greenpeace ha cercato di dare una risposta con una serie di accessi agli atti in tutte le università pubbliche, ben 66. Ma con un risultato sconfortante: in poche hanno risposto inviando gli accordi sottoscritti con le aziende e fornendo dati sui finanziamenti ricevuti. E quelle che hanno risposto spesso hanno oscurato parte dei documenti, rendendo difficile coglierne elementi essenziali quali l’oggetto e il valore economico o addirittura coprendo con una banda nera tutte le cifre riportate, come nel caso di una tabella di “verifica contabile” inviata dall’università Bicocca di Milano. Contro due delle università che si sono negate, Greenpeace ha fatto ricorso al Tar: il Politecnico di Torino, che non ha condiviso documenti nonostante l’anno scorso abbia rinnovato un’alleanza con Eni per lo studio delle risorse energetiche marine, e il Politecnico di Milano, che ha una collaborazione con Eni attiva dal 2008 e lo scorso anno ha diffuso la notizia di un nuovo accordo quadro per la realizzazione di un centro di innovazione e ricerca congiunto per l’accelerazione tecnologica in ambito Carbon Neutrality. In attesa della decisione del Tar del Piemonte, quello della Lombardia lunedì ha respinto il ricorso dando ragione all’ateneo milanese.

Eni: “Informazioni che non riguardano temi di dibattito pubblico”
Sono 36 su 66 le università italiane che hanno accordi con Eni, secondo i dati raccolti dall’Unità investigativa di Greenpeace Italia che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare. Di queste, solo nove hanno inviato quanto richiesto, mentre 12 hanno reso disponibili solo una parte dei documenti o hanno cancellato le parti rilevanti. Del resto Eni, quando è stata interrogata dagli atenei in qualità di soggetto controinteressato, si è sempre opposta alla condivisione dei documenti: le informazioni richieste da Greenpeace, si legge per esempio nell’opposizione inviata all’università degli Studi di Genova, “non ineriscono alla promozione di un dibattito pubblico” ma rispondono a “un mero bisogno conoscitivo privato” e “accordi accademici e/o eventuali connessi rapporti finanziari non possono in alcun modo costituire un fattore suscettibile di incidere sullo stato dell’ambiente ovvero costituire essi stessi informazione ambientale”. Un parere nonostante il quale l’ateneo genovese ha inviato i documenti a Greenpeace, sebbene annerendo le parti che avrebbero consentito di conoscere il valore e l’oggetto degli accordi. Tra le motivazioni usate dalle università per negare l’invio di documenti, la tutela degli interessi dell’azienda: va evitato, ritiene l’università Alma Mater Studiorum di Bologna, “un pregiudizio concreto agli interessi economici e commerciali di Eni”. Mentre l’università degli Studi di Milano si è spinta a scrivere che la richiesta dei documenti non risponde “all’interesse generale della collettività”. Per quanto riguarda i documenti resi disponibili, si tratta soprattutto di accordi di ricerca e, a seguire, generiche collaborazioni, tirocini, formazione e borse di studio. In particolare nell’ambito della formazione – scrive Greenpeace nel suo report – Eni è vista da alcuni atenei come “un punto di riferimento per trattare tematiche legate al cambiamento climatico”. Nel caso dell’università Ca’ Foscari di Venezia, per esempio, gli esperti della compagnia petrolifera sono stati chiamati per l’affidamento diretto di incarichi di insegnamento in un dottorato in Scienza e gestione dei cambiamenti climatici. E i finanziamenti ricevuti? A questa domanda hanno risposto in modo completo solo cinque atenei (quelle di Bari, Cagliari, la Federico II di Napoli, l’università per stranieri di Perugia e lo Iuav di Venezia) con un totale di 1,3 milioni di euro incassati tra il 2016 e il 2021 da Eni, un dato parzialissimo considerando che la maggior parte delle università ha taciuto i fondi ottenuti.

Silenzi anche sul settore difesa
Greenpeace ha chiesto alle università documenti anche sul settore difesa: in particolare gli accordi con Leonardo e le sue partecipate, Fincantieri, ministero della Difesa e Nato. Delle 66 università, dieci hanno dichiarato di non averne, mentre 34 hanno inviato documentazione anche se spesso in modo parziale. Quelli condivisi – rileva Greenpeace – sono perlopiù accordi poco rilevanti o privi dei dettagli che avrebbero permesso di comprendere l’applicazione effettiva della ricerca, se bellica o civile. Tra le argomentazioni usate per negare l’invio di documenti, il fatto che, come ritiene per esempio l’università Tor Vergata di Roma, “ineriscono prevalentemente a questioni di natura militare e sono correlati a interessi economici e commerciali di persone giuridiche, quali la proprietà intellettuale, il diritto d’autore e i segreti commerciali”. Per quanto riguarda le entrate, a Greenpeace sono stati comunicati finanziamenti da parte delle aziende del gruppo Leonardo e di Fincantieri per circa 6,5 milioni di euro negli ultimi cinque anni. Anche qui un dato parziale che tiene conto delle poche risposte arrivate.

Greenpeace: “Importante capire come vengono indirizzate ricerca e didattica”
“Con questo progetto – spiega Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia – la nostra Unità Investigativa intendeva rivelare chi, dietro le quinte, orienta le scelte della ricerca pubblica, con quali risorse economiche e verso quali progetti. In particolare, volevamo sapere su quali tematiche Eni chiede alle università di fare ricerca: mentre il colosso si presenta come un’azienda green, saranno verdi anche le sue collaborazioni con gli atenei?”. Obiettivo a cui se ne aggiungeva un altro: “Il settore della difesa sta usando la sua forza economica e le difficoltà finanziarie del sistema universitario per ‘spingere’ la ricerca militare o dual use negli atenei italiani?” La decisione di gran parte delle università pubbliche italiane di negare i documenti richiesti è, per Giannì, inaccettabile: “È innegabile che i soggetti privati che finanziano le ricerche accademiche abbiano un ruolo determinante nell’indirizzare la ricerca stessa, definendone ambito e finalità e che possono anche influenzare l’attività didattica degli atenei. Per questo motivo è un diritto conoscere le somme che le aziende private investono nelle università pubbliche e su quali progetti chiedano a ricercatrici e ricercatori di lavorare”. Per l’associazione ambientalista è inoltre “difficile capire come un finanziamento a una realtà pubblica possa essere tenuto nascosto”. Argomentazioni riprese nei ricorsi depositati al Tar contro il Politecnico di Milano e quello di Torino, università alle quali è stata presentata l’istanza di accesso agli atti classica (legge 241 del 1990) e non, come nel caso di altri atenei, con lo strumento del Foia (accesso civico generalizzato). “Eni è una delle principali compagnie petrolifere, nonché uno dei maggiori emettitori di gas serra a livello mondiale”, ha sottolinea l’associazione nelle memorie depositate. “Per questo rendere pubblici contratti e finanziamenti consentirebbe di avere uno sguardo più consapevole sugli esiti degli studi e dei dati ambientali prodotti dall’ateneo stesso”. Ma, come detto, il Tar della Lombardia ha respinto il ricorso: “Greenpeace ha ipotizzato che i rapporti contrattuali tra il Politecnico ed Eni potrebbero essere prodromici all’instaurazione di situazioni fattuali e giuridiche potenzialmente pregiudizievoli per gli interessi ambientali, ma tale allegazione si sostanzia in una pura ipotesi”, scrivono i giudici che ritengono l’accesso agli atti “meramente esplorativo” e dunque da negare. “Da questa vicenda – commenta l’avvocato di Greenpeace Italia Alessandro Gariglio – emerge che gli enti pubblici hanno il diritto di ricevere soldi dai privati e tenerlo nascosto e che il diritto alla riservatezza di come vengono finanziate le università è più importante di quello alla trasparenza della pubblica amministrazione. In Italia non si è ancora compreso che ha influenza sull’ambiente non solo l’inquinamento diretto, ma anche tutto ciò che può portare a creare o giustificare attività che possano poi sviluppare un inquinamento. Come potrebbe avvenire a seguito dello sviluppo di ricerche scientifiche non attente alle ricadute ambientali”. Resta ora da vedere cosa deciderà il Tar del Piemonte sui documenti non inviati dal Politecnico di Torino

Twitter: @gigi_gno

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