A governare l’Afghanistan dopo la partenza della coalizione internazionale sarà Hibatullah Akhundzada. Il leader dei Talebani verrà nominato Guida Suprema nel nuovo esecutivo formato dagli studenti coranici. Un incarico teocratico simile a quello ricoperto in Iran dall’ayatollah Ali Khamenei e che farà di Akhundzada la più alta carica del Paese conferendogli l’ultima parola su tutte le questioni politiche, religiose e militari. Appena sotto di lui nella catena di comando dovrebbe collocarsi Abdul Ghani Baradar, fondatore del gruppo insieme al mullah Omar e che ha negoziato con gli Stati Uniti gli accordi di Doha. Mentre i colloqui di Kandahar per la formazione del nuovo esecutivo, ai quali ha partecipato per la prima volta lo stesso Akhundzada, sembrano ormai giungere al termine, sono altri i nomi di spicco candidati a un posto nel governo del nascente Emirato Islamico dell’Afghanistan. Tra questi, anche Sirajuddin Haqqani e il mullah Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar.

Akhundzada, il leader nascosto che mette d’accordo le diverse anime talebane
La conferma è arrivata all’emittente locale Tolo News direttamente da Anamullah Samangani, membro della Commissione Cultura dei Talebani. Samangani ha spiegato che i negoziati sulla formazione del nuovo esecutivo sono in dirittura d’arrivo e che presto arriverà l’annuncio. “Sono quasi terminate le consultazioni sul nuovo governo. Non ci sono dubbi sulla presenza al suo interno del Comandante dei fedeli (Akhundzada, ndr). Sarà il capo dell’esecutivo e non ci dovrebbero essere dubbi su questo”, da dichiarato.

Hibatullah Akhundzada, il cui nome significa “dono di Dio“, sarebbe nato nel 1961 nel distretto di Panjwai a Kandahar, tradizionale roccaforte dei Talebani. Da lì sarebbe poi emigrato con la famiglia a Quetta, in Pakistan, formandosi in una scuola religiosa islamica. Coinvolto negli anni Ottanta nella resistenza contro i sovietici, nel corso degli anni si è guadagnato la reputazione di leader religioso più che di comandante militare: dal 1996 al 2001 fu il vice capo della Corte Suprema talebana e da quella posizione ha emesso svariate sentenze a favore delle punizioni islamiche, come esecuzioni pubbliche di assassini e adulteri e l’amputazione dei condannati per furto. Anche per questo è considerato un personaggio pragmatico, oltre che una figura di compromesso fra le varie fazioni del gruppo, le cui differenze si basano soprattutto sull’etnia e le posizioni politiche.

Negli ultimi anni Akhundzada ha servito come vice del precedente capo talebano Akhtar Mohammad Mansour, ucciso in un attacco di droni statunitensi lo scorso 21 maggio. Fu proprio lui a nominarlo suo successore nel testamento con cui ha rivelato le sue volontà agli Studenti coranici. Per 15 anni ha insegnato e predicato in una moschea a Kuchlak, una città nel sud-ovest del Pakistan. E nel 2016 è diventato il leader del gruppo, dopo essere scampato a due attentati nel 2012 e nel 2019. A renderlo famoso presso la stampa internazionale ha contribuito però anche l’ampio apprezzamento da sempre mostrato verso l’impiego di attentatori suicidi: nel 2017 proprio uno dei suoi figli si sarebbe fatto esplodere a 23 anni nella provincia meridionale di Helmand.

Quello di Akhundzada è un ritorno alla notorietà dopo un lungo periodo lontano dai radar: non si fa vedere pubblicamente da molti anni e secondo il Washington Post all’inizio del suo mandato cercò soprattutto di rimpolpare le finanze del gruppo, in parte potenziando il commercio e la raffinazione dell’oppio. Una soluzione che ora potrebbe riproporre anche per risollevare l’economia del Paese.

Baradar, il negoziatore che diventa capo dell’esecutivo
Secondo le ultime indiscrezioni uscite dal vertice di Kandahar, poi, sarà il mullah Abdul Ghani Baradar a guidare l’esecutivo vero e proprio. Il capo della delegazione di Doha raccoglie così i frutti di un lavoro iniziato nel 2019, quando su richiesta degli Stati Uniti è stato rilasciato da una prigione pakistana, dove si trovava dal 2010, per diventare il capo della diplomazia degli Studenti coranici.

Baradar, insieme al mullah Omar, è una figura storica all’interno del gruppo, visto che ne è stato il fondatore proprio con l’ex Amir al-muminin. Fu lui, secondo quanto si racconta, a caricare il mullah Omar ferito su una moto, dopo un attacco delle forze anti-talebane in seguito all’intervento americano in Afghanistan, e a portarlo in salvo sulle montagne al confine con il Pakistan. Già da quando è salito alla guida della Shura di Quetta, il principale centro di potere talebano, ha mostrato propensione al pragmatismo e al dialogo. Posizioni che gli hanno garantito la liberazione nel 2019, nel tentativo di intavolare una trattativa tra Usa e Talebani.

Sirajuddin Haqqani, il rampollo della Rete sanguinaria
Un altro nome di spicco tra quelli che si contendono un ruolo nel nascente governo è quello di Sirajuddin Haqqani, figlio del fondatore dell’omonima Rete Haqqani, Jalaluddin. Nata al termine della guerra contro i sovietici, presto il gruppo estremista che ha le sue roccaforti nell’est del Paese, vicino al confine col Pakistan, si è alleato con i Talebani distinguendosi per l’estremismo delle proprie posizioni e la violenza messa in atto dai suoi combattenti, autori di numerosi attentati e tra i primi a utilizzare i kamikaze nel conflitto afghano. Posizioni così estremiste da trasformare il network in una sorta di anello di congiunzione, anche dopo la morte di Osama bin Laden, tra i Talebani e al-Qaeda. Dopo la morte di Jalaluddin Haqqani, nel 2018, è stato il figlio Sirajuddin a prendere il controllo del gruppo.

Mohammad Yaqoob, l’eredità del mullah Omar
Mohammad Yaqoob è tra i più giovani leader del gruppo, ma la posizione ricoperta è dovuta non solo alle sue capacità, ma anche e soprattutto al fatto che nelle sue vene scorre il sangue del primo leader talebano. È infatti figlio del mullah Omar e ad appena 25 anni ha cercato di assumere la guida dell’intero gruppo, dopo la morte del padre. Un ruolo poi andato al mullah Mansour che, però, Yaqoob non ha mai riconosciuto come Amir al-muminin, forse anche a causa delle voci, da lui stesso smentite, in verità, su un possibile assassinio del padre proprio ad opera del suo successore. Un ruolo da ribelle che è durato solo un anno, vista la veloce uccisione di Mansour e la salita al potere di Akhundzada. Oggi, appena 31enne, si appresta a ricoprire un ruolo di spicco all’interno del nuovo Emirato Islamico.

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