Venti Slam, 103 titoli Atp, sei Finals, 310 settimane al numero uno (237 di queste consecutive) e 28 Masters 1000. Nato dove non si pensava sarebbe mai uscito uno come lui, Roger Federer rappresenta l’anello di congiunzione tra il tennis classico e quello moderno. L’amore ossessivo per il gioco lo ha guidato in ogni riadattamento. A tutto il resto ci ha pensato il suo talento: “Ha tanto di quel talento contenuto nel suo corpo – ha dichiarato Rod Laver anni fa – che è quasi difficile da credere. Direi che è quasi ingiusto che la stessa persona possa fare tutto come lui. E muoversi come sfiorasse solo il terreno, che è la caratteristica dei fenomeni”.

Numeri, considerazioni e soprannomi (il Maestro, il Genio) racchiusi in 23 anni di carriera e in una domanda precisa: “È lui il più grande di tutti i tempi?”. La voglia di molti di dire “si” si scontra con l’impossibilità di rispondere oggettivamente. Oggi Roger Federer compie 40 anni, e noi abbiamo voluto raccontare la sua storia in cinque atti.

GLI INIZI: RACCHETTE ROTTE E CAPELLI COLORATI (1998-2002) – 2 luglio 2001. Ottavi di finale di Wimbledon. Pete Sampras è sul Center Court. È il suo campo, quello che lo ha visto trionfare già sette volte. Ha il servizio a disposizione e deve fronteggiare un match point nel quinto set. Il punteggio è 6-5. Di fronte a lui c’è un 19enne elvetico, con una coda di cavallo, la collanina al collo e l’aria un po’ scanzonata, che da tre ore e mezzo sta meravigliando il torneo più famoso del mondo. Si chiama Roger Federer. Non è una meteora. Il suo nome circola già da parecchio tempo. Almeno dal 1998: “Ho visto per la prima volta il giovane Federer – ha ricordato Gianni Clerici – nel corso del torneo jr. di Wimbledon del 1998 (ndr. vinto poi dallo svizzero). Vidi un tipo battere, fare un passo in avanti e affrontare un rimbalzo con una velocità di braccio, più che insolita, incredibile”. L’esordio di un torneo dello Slam al Roland Garros 1999 e le prime finali perse (Marsiglia e Basilea nel 2000) anticipano la prima vittoria in carriera a Milano. Il 5 febbraio 2001 Julien Boutter è battuto 6-4 6-7 6-4. Il talento che sprigiona sembra non avere un limite, eppure molti sono scettici sulle sue potenzialità. Il giovane Federer è infatti incostante, spacca le racchette, si lamenta spesso e scende in campo con i capelli mesciati. Il classico esempio di genio e sregolatezza. E si sa, tranne rare eccezioni (John McEnroe), un giocatore con questa indole lascia il segno nei cuori ma non nei vari albi d’oro.

È questa l’etichetta che si porta dietro il primo Federer. Una nomea che comincia a vacillare quando Sampras serve esterno la prima per cancellare il match point. La risposta di dritto di Federer è anticipata, lungolinea e vincente: 7-6 5-7 6-4 6-7 7-5. Per vederlo con il trofeo dei Championships in mano ci vogliono ancora due anni e altre sconfitte clamorose (una su tutte, quella al primo turno di Wimbledon 2002 contro Mario Ancic), eppure la vittoria contro Pete Sampras è lo spartiacque della sua carriera. Lo shock tecnico che serviva. Quello emotivo, per Federer, arriva l’anno seguente e coincide con una tragedia. La morte del suo allenatore Peter Carter, colui che ci aveva visto lungo prima di tutti e che aveva sopportato tutti i suoi giovanili isterismi.

GLI ANNI DEL DOMINIO (2003-2007) – Volée, demi-volée, stop volley, passati e drop-shot. Di dritto, rovescio o in controbalzo. A tutto braccio o solo di polso. È un repertorio completo come non si era mai visto su un campo da tennis quello di Roger Federer. Tutti i fuoriclasse del passato infatti avevano un punto debole su cui l’avversario poteva aggrapparsi. Ma lui sembra non averne. Potente nei colpi quanto leggiadro nei movimenti, Federer, tra il 2003 e il 2007, è un fiume in piena di gesta che trova la sua perfetta dimensione quando calca l’erba di Wimbledon.

Qui l’ex ragazzo ribelle diventa dominatore il 6 luglio 2003, dopo una risposta sbagliata dell’australiano Mark Philippoussis, 7-6 6-2 7-6. Di lì in poi sarà un susseguirsi di trionfi per cinque stagioni: il numero uno della classifica conquistato nel febbraio 2004, quattro Atp Finals (2003, 2005, 2006, 2007), altri quattro Wimbledon (2004, 2005, 2006, 2007), quattro Us Open (2004, 2005, 2006, 2007) e tre Australian Open (2004, 2006, 2007). Una supremazia totale che genera noia e non solo. Federer acquista un’aria mistica. Per David Foster Wallace assistere a una sua partita equivale a vivere “un’esperienza religiosa”: “La spiegazione metafisica – scrive sul libro dedicato allo svizzero – è che Roger Federer è uno di quei rari atleti preternaturali che sembrano essere esenti, almeno in parte, da certe leggi fisiche. Non è mai in affanno né sbilanciato. La palla che gli va incontro rimane a mezz’aria, per lui, una frazione di secondo più del dovuto. I suoi movimenti sono flessuosi più che atletici. Come Ali, Jordan, Maradona e Gretzky, pare allo stesso tempo più e meno concreto dei suoi avversari. Specie nel completo tutto bianco che Wimbledon ancora si diverte impunemente a imporre, sembra quello che (secondo me) potrebbe benissimo essere: una creatura con il corpo fatto sia di carne sia, in un certo senso, di luce”. Ogni partita è l’occasione per creare colpi mai visti, i “momenti Federer”: “Quasi tutti gli amanti del tennis che seguono il circuito maschile in televisione – continua Foster Wallace – hanno avuto, negli ultimi anni, quello che si potrebbero definire «Momenti Federer». I Momenti sono tanto più intensi se un minimo di esperienza diretta del gioco ti permette di comprendere l’impossibilità di quello che gli hai appena visto fare”.

Tutti invocano il Grande Slam che manca dal 1969. Tutti lo reputano un fatto inevitabile. Ma questo non arriva mai. A Federer manca sempre un tassello, il Roland Garros. Qui trova la sua nemesi e, allo stesso tempo, la sua fortuna. Perché non c’è grandezza vincendo da solo, ma solo freddi numeri. Rafael Nadal lo ferma sulla terra rossa nel 2005, 2006 e 2007. La rivalità che nasce è radicale, entusiasmante, iconica. Un confronto di stili che crea immaginazione e fascino nel pubblico, e che, spesso, vede lo spagnolo uscire vincitore. Nadal è l’unico avversario contro il quale Federer si sente vulnerabile. Più per motivi freudiani che tecnici. È l’unico che può interrompere il suo dominio.

LA PERDITA DELL’IMBATTIBILITÀ (2008-2012) – Il dritto di Federer si ferma in rete. Nadal ha vinto ancora, questa volta 9-7 al quinto. Il teatro non è però il Roland Garros, bensì Wimbledon. Il fortino inespugnabile. Il luogo dove Federer vince da 41 partite consecutive. Tre interruzioni per pioggia, la conclusione con l’oscurità, la rimonta di Federer da due set a zero, il tie-break del quarto set con due match point annullati a Nadal. Un susseguirsi di colpi spettacolari che rendono la finale del 2008 una pietra miliare nella storia del tennis. Per molti la miglior partita mai vista.

La sconfitta di Federer è però anche altro. È un nuovo spartiacque. L’inizio di una nuova storia. La fine di una dittatura e la nascita di un’oligarchia tennistica. L’aura d’imbattibilità è definitivamente crollata e Federer deve fare i conti con la sconfitta anche sui suoi campi. Completa il Career Grand Slam vincendo finalmente il Roland Garros (2009), ottiene il record assoluto di Slam a Wimbledon (sempre nel 2009) e torna anche numero uno del mondo, ma non domina più. Insieme a lui ora non c’è soltanto Nadal ma anche altri due giovani dalle grandi doti: Andy Murray e Novak Djokovic.

Anche loro imparano a vincere e a vincerlo. Nel 2011 Federer non vince titoli Major. È la prima volta dal 2003. A bassa voce si comincia a darlo per finito. Giudizi e sentenze che vengono di colpo azzerati l’8 luglio 2012, quando lo scozzese Murray manda in corridoio il suo passante in corsa. È il settimo Wimbledon per lo svizzero. Il più difficile perché giocato contro un pubblico per la prima volta “ostile”, voglioso di vedere un vincitore britannico che manca dal 1936. No, non è ancora la fine. Per quella c’è tempo.

GLI INFORTUNI E LA VOGLIA DI MIGLIORARSI ANCORA (2013-2016) – Un titolo ad Halle, una semifinale agli Australian Open, un quarto a Roland Garros, un ottavo agli Us Open e, soprattutto, il secondo turno a Wimbledon. È il 2013 di Roger Federer. La peggiore stagione da un decennio. Condizionato anche da una serie di infortuni alla schiena, lo svizzero è considerato da molti sul viale del tramonto. D’altronde ha 32 anni. Alla sua età in molti hanno mollato. Ma Federer non è un tennista come gli altri. Lui rilancia. Vuole migliorarsi ancora per darsi un’ultima occasione. Cambia racchetta e ingaggia Stefan Edberg. Ben presto il suo gioco diventa più pressante e offensivo. Le discese a rete una costante.

Tornano i titoli (nel 2014 Dubai, Halle, Cincinnati, Shanghai e Basilea, nel 2015 Brisbane, Dubai, Istanbul, Halle, Cincinnati e Basilea) e il secondo posto mondiale ma manca il successo negli Slam. E stavolta a sbarrargli la strada non c’è Nadal ma Novak Djokovic. Nel 2014 a Wimbledon Federer perde al quinto set contro il serbo. L’anno successivo ne bastano invece quattro sia ai Championships che a New York. La delusione è tanta. Eppure più perde in finale e più la sua popolarità (già planetaria) aumenta ancora di più. Il sollievo nel vederlo così competitivo, nonché intento a battagliare contro l’età che avanza, crea nella gente il bisogno di vedergli alzare un altro Major. Ogni volta sembra che Federer giochi in casa, soprattutto quando è in difficoltà. Ogni partita si trasforma in un incontro di Coppa Davis. Ogni pubblico, indipendentemente dalla nazionalità, diventa svizzero.

Nel 2016 le cose cambiano ancora. Nel suo angolo non c’è più Edberg ma Ivan Ljubicic. L’anno però non è semplice. Arrivano solo due semifinali agli Australian Open e a Wimbledon e tanti problemi fisici. Il ginocchio viene operato e la schiena torna a farsi sentire. A 35 anni Federer decide di fermarsi per sei mesi. Per la prima volta dal 2000 non vince nemmeno un trofeo. Si torna a parlare di titoli di coda e di ultimo giro per i saluti finali. Il quarto capitolo della sua carriera si chiude così come era iniziato.

LA RINASCITA E LA RICERCA DEL FINALE PERFETTO (2017 a oggi) – Quinto set, 8-7 40-15. Federer ha due match point a disposizione. È a un solo punto dal suo nono titolo a Wimbledon e, probabilmente, dal finale perfetto della carriera. Sembra tutto già scritto in quella edizione di Wimbledon 2019. La folla in delirio, le congratulazioni di Novak Djokovic e l’addetto dei Championships pronto a incidere il suo nome sul trofeo. Ma tutto questo non arriva. Uno dopo l’altro i punti sfumano via. Prima un errore con il diritto e poi un passante di Nole. Quando si arriva al tie-break del 12-12 tutti sanno che il lieto fine questa volta non arriverà.

Quel lieto fine che invece era giunto improvviso due anni prima, nel 2017. Fermo da sei mesi per infortunio, Federer si presenta agli Australian Open con mille incertezze e la testa di serie n. 17. Nessuno è preparato a quello che sta per verificarsi. Le sensazioni ambigue dei primi turni lasciano ben presto spazio all’incredulità. Berdych, Nishikori, M. Zverev e Wawrinka vengono messi in fila. D’incanto, otto anni dopo l’ultima volta, Federer è di nuovo in finale a Melbourne. Nuovamente contro Nadal. La finale è uno dei due apici della loro rivalità. Cinque set dove lo spettacolo si mescola alla nostalgia.

La vittoria di Federer non rappresenta solo il 18esimo Slam. Per la prima volta batte Nadal al quinto recuperando un break di svantaggio. Per la prima volta lo batte grazie al suo rovescio. È un’autentica rinascita a 35 anni e mezzo. Tredici anni dopo il loro primo incontro (Miami 2004), lo svizzero trova il modo di risolvere il rebus Nadal. Il click psicologico si traduce in cinque vittorie consecutive. Ma il 2017 non è solo il tempo dell’emozione. C’è spazio anche per la storia. Federer la riscrive a Wimbledon sei mesi dopo. L’ace con cui conclude la finale contro Marin Cilic è preciso, inevitabile e perentorio. Esattamente come il torneo che vince senza perdere nemmeno un set. È l’ottavo Wimbledon. Il record dei record.

La scia di tanto entusiasmo porta in dote altri tre risultati: il 20esimo Major in Australia, il ritorno al numero uno del mondo e il titolo Atp n. 100. Ormai c’è tutto, manca solo il finale perfetto. L’ultimo colpo di coda. L’ossessione di tutti grandi campioni che sentono avvicinarsi il tempo di dire “basta”. Novak Djokovic, il Covid e un nuovo infortunio hanno poi complicato le cose. Ma la ricerca del finale perfetto continua e, sicuramente, non sarà un 6-0 sul Center Court contro Hubert Hurkacz.

Twitter: @giacomocorsetti