Con le trattative europee sul Patto per le migrazioni arenate nelle sabbie mobili del contrasto tra Paesi di primo ingresso e le necessità degli altri membri Ue di non perdere consensi interni accettando una quota di migranti in arrivo, Draghi e i leader degli altri Paesi del sud Europa, ai quali si aggiunge la Germania, spostano il baricentro della discussione sul vicinato. Se il termine “redistribuzione” rappresenta ancora un tabù in vista del Consiglio europeo del 24 e 25 giugno, il premier e la cancelliera Angela Merkel si sono visti alla vigilia della nuova Conferenza ministeriale sulla pace in Libia di Berlino presentando una linea comune per destinare altri miliardi, si parla di 8, un decimo dei 79,5 che la Commissione Ue ha riservato alle partnership con il vicinato, all’esternalizzazione della questione migratoria che, così, sarà affidata ai Paesi di confine, compresi quelli del Nord Africa come Libia, Tunisia e Marocco. Una riproposizione dell’accordo stipulato nel 2016 con Ankara che, così verrebbe allargato ai Paesi di partenza della rotta del Mediterraneo. E proprio il paese guidato da Erdogan, emerge da indiscrezioni provenienti da Bruxelles, potrebbe beneficiare di 3 dei 5,7 miliardi di euro proposti dalla Commissione per i profughi e le comunità che li ospitano in Turchia, Giordania, Libano e Siria, fino al 2024. Fondi che si aggiungono ai 535 milioni di euro di finanziamento ponte in corso per proseguire con i progetti umanitari chiave con i profughi fino all’inizio del 2022. Così, la Germania avrà garantita una certa tranquillità sulla Rotta balcanica, la cui esplosione potrebbe generare non pochi problemi di consenso interno alla Cdu, mentre i Paesi del Mediterraneo potrebbero evitare l’emergenza dovuta al previsto nuovo picco di flussi migratori via mare.

Condizione necessaria: stabilizzare la Libia
Non ci sono fondi che possano arginare i flussi migratori senza una stabilizzazione di un Paese frammentato come la Libia, con le sue anime in perenne conflitto tra loro. La nomina del nuovo capo del governo di Tripoli, Abdul Hamid Dbeibah, al momento sembra mettere tutti d’accordo, compreso il generale Khalifa Haftar, ma la prova del nove della stabilità libica si avrà solo a dicembre, quando sono in programma le elezioni che dovranno dare vita a un governo che gestisca la ricostruzione. Non è ancora possibile capire se tutti gli attori interni (ma anche esterni) coinvolti accetteranno l’esito delle urne o se il voto si svolgerà in sicurezza e quindi democraticamente.

A questo proposito, il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha sottolineato la soddisfazione del Paese per i “progressi visibili” registrati, ma che rimane “cruciale che si tengano le elezioni e che i mercenari stranieri lascino il Paese“: “Neanche due anni fa la Libia stava rischiando di finire in una spirale di caos e violenza – ricorda – Scontri armati fra numerose milizie in competizione fra loro erano all’ordine del giorno, il Paese era diviso. Un constante afflusso di armi alle parti in conflitto aveva reso la situazione anche peggiore. Con la forza della perseveranza e la stretta cooperazione delle Nazioni Unite sono stati fatti progressi visibili e questo anche grazie alla prima Conferenza sulla Libia nel gennaio 2020 e al processo di Berlino. Il cessate il fuoco, osservato fin dall’ottobre, è un segno di questo, come la formazione di un governo di unità nazionale. Il nostro obiettivo è supportare il governo di transizione della Libia, in modo che possa prendere il destino del paese nelle sue mani. Allo stesso tempo vogliamo ricordare alla comunità internazionale il suo impegno volontario per supportare la Libia sulla strada della pace e della stabilità”. Un messaggio che è rivolto a tutti gli attori internazionali coinvolti e presenti alla conferenza, dall’Italia agli Stati Uniti, passando per Francia, Russia, Turchia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto.

Per il momento, comunque, le anime interne alla Libia non promettono battaglia. L’autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Haftar, consapevole di non poter prendere il potere attraverso una soluzione militare, ha chiesto alla missione Onu nel Paese (Unsmil) di “adottare tutte le misure e assumersi la responsabilità di tenere le elezioni nella data concordata” del prossimo 24 dicembre. Dal canto suo, Dbeibah ha dichiarato di essere arrivato a Berlino “portando le aspirazioni dei libici per un Paese unificato e stabile rifiutando il ritorno alla guerra e lo spreco delle risorse dello Stato. Faremo del nostro meglio al fine di stabilizzare la Libia e arrivare alla prosperità del nostro popolo”.

Così come fatto da Maas, anche la Turchia, uno degli attori che è intervenuto militarmente sul campo al fianco dell’ex presidente del Governo di accordo nazionale, Fayez al-Sarraj, ha sottolineato tramite il ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu, l’importanza di liberare il Paese dalle milizie straniere. E il riferimento è ai mercenari russi, ma non solo, del Wagner Group, schierati al fianco delle milizie di Haftar.

Il nuovo ruolo degli Usa
Questo nuovo tavolo si apre anche con una sedia in più. Si tratta di una presenza pesante perché gli Stati Uniti, dopo il disimpegno voluto dall’ex presidente americano, Donald Trump, tornano ad avere un ruolo di primo piano nel negoziato libico. Il segretario di Stato, Antony Blinken, ha chiesto che tutti i mercenari lascino presto il Paese, con chiaro riferimento agli uomini inviati da Mosca, al fine di rispettare il cessate il fuoco in vista delle prossime elezioni. “Abbiamo un’opportunità che non abbiamo avuto negli ultimi anni per aiutare realmente la Libia ad andare avanti come Paese sicuro e sovrano”, ha detto prima di aggiungere che, inoltre, gli Stati Uniti e la Germania fanno “fronte comune” contro le “provocazioni” della Russia in Ucraina.

Draghi guarda al Nord Africa, ma non molla sul fronte europeo
Se la necessità di un’azione sui flussi migratori ha spostato l’attenzione da Bruxelles alle capitali dei Paesi di confine con l’Ue, il governo italiano non ha alcuna intenzione di cedere sui negoziati per il nuovo Patto sulle migrazioni. In vista del vertice di giovedì e venerdì tra i capi di Stato e di governo Ue, Draghi ha ricordato che “un altro tema che ci riguarda da vicino è quello della gestione dei flussi migratori, che torna ad essere in agenda al Consiglio europeo su precisa richiesta dell’Italia. Come ho dichiarato in passato, il governo vuole gestire l’immigrazione in modo equilibrato, efficace e umano. Ma questa gestione non può essere soltanto italiana. Deve essere davvero europea”. Parole che ribadiscono la posizione già espressa più volte dal sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega agli Affari Europei, Vincenzo Amendola, che aveva giudicato insufficiente la “solidarietà flessibile” proposta dalla Commissione, influenzata dal ‘no’ secco di diversi Paesi Ue contrari alla redistribuzione dei migranti, blocco di Visegrad e Paesi del Nord in testa. “Occorre un impegno comune che serva a contenere i flussi di immigrazione illegali – ha aggiunto -, a organizzare l’immigrazione legale e aiutare questi Paesi a stabilizzarsi e a ritrovare la pace. E penso, ovviamente, in particolar modo alla Libia. Un migliore controllo della frontiera esterna dell’Unione può essere la base per un piano più ampio che comprenda anche il tema dei ricollocamenti“, ha concluso.

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