Un anno, qualcosa in meno, e il muro di Berlino sarebbe caduto. Aprile 1988, la primavera è nell’aria, gli Europei all’orizzonte, la perestrojka già una realtà. Anche nel calcio: l’Unione Sovietica in Germania ci sarà, la squadra è forte e può diventare uno dei simboli della rivoluzione di Michail Gorbačëv. Tant’è che anche il solitamente silente numero due del Pcus, Egor Ligaciov, parla alla vigilia degli Europei di cambiamenti necessari per il mondo del pallone: “Serve più democrazia, liberare lo sport dal monopolismo dell’apparato, lasciare lo sport agli sportivi”.

Il calcio sovietico in quegli anni è totalmente chiuso verso l’esterno: i calciatori, che non possono giocare all’estero (né i calciatori esteri possono fare altrettanto naturalmente) guadagnano bene a confronto dei concittadini (per un giocatore professionista c’è un rimborso equivalente a 800mila lire al mese, un ingegnere nucleare ne guadagna 200mila), ma infinitamente meno rispetto ai colleghi europei, e in più possono confrontarsi solo con le altre squadre sovietiche e in pratica il calcio è tutto per l’attesa di Spartak Mosca-Dinamo Kiev in patria, con le partite (poche) delle coppe europee come unico confronto con l’esterno.

Tutto sta per cambiare, e quell’Urss guidata dal colonnello Valerij Lobanovsky è veramente forte. Lo dimostra da anni: nel 1982 al Mundial sfiora la semifinale, nel 1986 in Messico (senza Lobanovsky) viene fermata dal Belgio agli ottavi, in una gara molto discussa. L’Europeo del 1988 può essere l’anno della consacrazione: Rinat Dasaev è ormai un mito. Portiere tartaro che ha raccolto a tutti gli effetti l’eredità di Lev Yashin, freddo e agile, ribattezzato “Cortina di Ferro”, ma se la Cortina è ormai facile da oltrepassare Dasaev è un portiere quasi insuperabile. Simbolo dello Stato in cui crede ciecamente: tanto da nascondere la sua fede musulmana.

C’è Protasov, centravanti potente e anche intelligente: amante di libri e letteratura, ma soprattutto del gol. C’è Rats, terzino sinistro tutto corsa e potenza che all’avversario di turno fa vedere i cosacchi. Il principino Zavarov, elegante e appassionato di scacchi, c’è l’astro nascente Oleksij Michailichenko, l’esperto Belanov. Hanno dominato il proprio girone di qualificazione, arrivando primi davanti alla Germania di Klinsmann, Matthäus, Völler e Brehme ed eliminando la Francia. E anche le amichevoli prima del torneo dicono che l’Urss è tra le squadre più accreditate a vincere quella manifestazione: a Berlino, con Lobanovsky che resta a Mosca per un attacco di cuore, i ragazzi con CCCP sulle magliette battono l’Argentina di Maradona per 4-2. Zavarov, Litovchenko e la doppietta di Protasov lasceranno stupiti gli argentini, con Maradona neutralizzato da una ferrea marcatura a uomo.

Giocano il calcio del 2000, dice Lobanovsky, che applica un misto di tattica e atletismo in salsa sovietica, roba che gli allenamenti di Zeman sembrano il risveglio muscolare dei villaggi vacanze: celebre la “salita della morte”, ripetute da fare al 16 per cento di pendenza come test di accesso in squadra (a tal proposito qualcuno chiese al colonnello, scopritore e padre calcistico di Shevchenko, se il suo pupillo avesse fallito quei test cosa sarebbe accaduto, sentendosi rispondere: “Allora non sarebbe stato Shevchenko”). L’esordio all’Europeo conferma i pronostici: all’Olanda di Van Basten Dasaev para di tutto, ma i difensori olandesi non riescono ad arginare l’ennesimo inserimento di Rats che di sinistro trova il gol vittoria.

L’Eire riesce a fermare i russi, andando in vantaggio con un capolavoro di Whelan e venendo raggiunta da Protasov e poi nell’ultima gara del girone l’Inghilterra viene travolta, perdendo 3-1 e subendo gol da Aleinikov, Michailichenko e Pasulko. Quella squadra vola, e lo notano gli italiani che se la ritrovano contro in semifinale a Stoccarda. Con la Russia la squadra di Azeglio Vicini è considerata l’altra favorita del torneo: Gianluca Vialli e Roberto Mancini davanti fanno meraviglie, e da Ciro Ferrara a Rambo De Napoli fino a Gigi De Agostini e al Principe Giannini, con Walter Zenga in porta, c’è l’ossatura che dovrà portare gli azzurri al Mondiale da giocare in casa due anni dopo.

“Sembravano in tredici”, sarà il commento di Beppe Bergomi dopo la gara: un commento che lascia intendere una gara senza storia, finita infatti 2-0 per i sovietici, con gol di Litovchenko e Protasov, e col loro dominio fisico per tutta la gara. In finale l’Olanda, già sconfitta nel girone, ma la consacrazione definitiva, a portata di mano secondo i pronostici, non arriverà neppure il 25 giugno del 1988 a Monaco di Baviera. Neppure l’ombra all’Olympiastadion del calcio del 2000 del colonnello Valerij Lobanosvki, neppure l’ombra delle geometrie di Zavarov e Michailichenko o delle sfuriate di Rats e Demjanenko sulle fasce: nulla di nulla, con Gullit lasciato solo a segnare il vantaggio di testa e la traiettoria da pinacoteca di Van Basten che, spegnendosi alle spalle di un mesto e impotente Dasaev, regalerà l’Europeo all’Olanda e spegnerà l’ultima grande Russia calcistica.

Da lì si apriranno le porte del calcio europeo per molti di quei calciatori: nessuno di loro avrà un futuro glorioso. La stella Dasaev troverà in Spagna, al Siviglia, la depressione e l’alcolismo, parando per fortuna anche quelli. Zavarov, Michailichenko e Aleinikov diventeranno incompresi in Italia, Protasov avrà una modesta carriera all’Olympiacos assieme a Litovchenko, la “furia” Rats giocherà solo undici modeste partite con la maglia dell’Espanyol, persino Lobanovsky cederà al fascino dei petroldollari, prima negli Emirati e poi nel Kuwait. Una squadra bella e incompiuta quell’Urss, l’ultima grande Russia. L’ultima che, come ha detto Dasaev in una recente intervista, “giocava solo per amore”.

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