Un padre e un figlio, due storie diverse legate da una terra: la Siria. Per uno, luogo dell’infanzia e della giovinezza da cui fuggire, per l’altro, luogo della scoperta e della memoria a cui ‘tornare’. In “La nostra Siria grande come il mondo” (in uscita il 10 marzo per add editore) Mohamed e Shady Hamadi, scrittore e blogger de ilfattoquotidiano.it, fanno parlare due generazioni riscoprendo un dialogo che non sempre è stato facile. Avventurosa e sorprendente la vita di Mohamed che per molto tempo ha nascosto al figlio ciò che aveva subito nelle carceri siriane, riflessiva e impegnata quella di Shady. Ascoltandoli, seguiamo il racconto di cosa fosse la Siria cinquant’anni fa, di cosa volesse dire opporsi al regime e di come si vivesse allora in Italia da stranieri, ma anche le confidenze di cosa sia la Siria per chi non ci è nato ma che lì sente le proprie radici. Proponiamo qui un estratto del libro (capitolo 4).

Vicino a piazza dei Martiri, nel centro di Beirut, ci sono diversi hotel. Alcuni di questi sono stati ricostruiti dopo la guerra civile e ancora conservano il loro stile architettonico originale. Quando nel 2015 ero in Libano, spesso cominciavo da quella zona la mia passeggiata nella memoria, alla ricerca dei luoghi della gioventù di mio padre. Vedere dove era stato mi sarebbe servito per ricostruire un pezzo della sua vita che mi mancava per capire meglio da dove, e da quali atmosfere, arrivava quest’uomo e dunque anch’io.

Lo immaginavo, sul finire degli anni Sessanta, camminare per quelle strade. La sensazione di un possibile ritorno in Siria gli occupava ancora i pensieri. La sua città, la sua patria, era ancora vicina, e la prossimità geografica portava con sé una vicinanza degli affetti. Per mio nonno era facile andarlo a trovare e questo era ancora un antidoto alla solitudine. A casa nostra, a Milano, c’è una bella foto di loro due fuori dall’aeroporto di Beirut, forse davanti allo stesso muro che costeggiai quando atterrai per la prima volta lì.

Da Beirut gli telefonavo per avere conferma di ogni dettaglio. Quando prendeva la cornetta non lo lasciavo parlare e cominciavo con la tempesta di domande: «Ti ricordi, dove era quel posto?», «C’era un caffè all’angolo?», «O un negozio di dolci?». Lui, dall’altro capo del filo, provava a sforzarsi per ricercare nei meandri dei ricordi quell’esatto posto che, spesso, apparteneva a un mondo davvero lontanissimo, sepolto sotto i detriti della guerra e, in seguito, sotto le silhouette delle nuove costruzioni.

La prima volta che passeggiai lungo la Corniche, un viale che costeggia il mare di Beirut, mi emozionai. Il motivo era che di fianco ai palazzi nuovi, altissimi e vuoti, frutto delle speculazioni immobiliari, c’erano case o palazzi testimoni di un tempo andato. Il solo pensiero che mio nonno e mio padre avessero camminato per quelle vie o fossero entrati in uno di quei palazzi mi faceva provare una nostalgia fortissima per qualcosa che non ho mai vissuto.

È una sensazione intensa e difficilmente spiegabile, una sorta di rimpianto per non aver potuto vivere a pieno la mia famiglia siriana. Essere parte di una tradizione non solo di una cultura, ma anche di luoghi, è ciò che più mi manca. In quei giorni mio nonno e mio padre non erano stranieri in Libano, non del tutto almeno, perché quei luoghi ai loro occhi non avevano alcuna connotazione esotica o di distanza. Per me era diverso, le forme dei palazzi, i segni alle finestre, i nomi delle vie erano un altro mondo rispetto al mio. Loro erano stati di casa, io avrei voluto esserlo, e mi muovevo invece come un turista sentimentale.

Per sottolineare questa distanza tra generazioni, non solo tra me e mio padre, non bisogna allontanarsi dalla Corniche: prima di entrare in quel viale c’è una rotonda dominata dalla statua di Nasser, idolo di una generazione che sta scomparendo sotto il peso di un’enorme illusione ma che a molti della mia generazione forse non dice più nulla.

Per molte settimane ho girovagato a Beirut senza smettere di chiedere in giro: «Nazel zuhur, l’hotel, lo conosci?». La risposta che ottenevo era sempre un no secco. Mi chiedevano più dettagli, in quale zona fosse, se sul lungomare o altrove. Io sapevo che sì, era lì, nella zona del porto, poco di più. Poi, aggiungevo che mio padre vi aveva soggiornato come se quel particolare avesse potuto portare chissà quale indizio alla ricerca. «Sì, ma quando? Dopo la guerra è cambiato tutto!» ribattevano i miei interlocutori un po’ straniti. Rispondevo che lui c’era stato nei primi anni Settanta. Di solito, a quel punto, chi mi stava davanti sorrideva, come se avessi chiesto una cosa risalente a mille anni fa. Qualcuno, forse, mi avrà preso per pazzo.

La malattia della nostalgia mi ha sempre spinto a cercare i luoghi di mio padre per stabilire un contatto. Avevo fatto così in Siria, nel 2009, quando a tutti i costi avevo voluto visitare Homs e Talkalakh e al telefono raccontavo a mio padre, descrivendoglieli, altri posti dove lui non era mai stato per compensare la sua mancanza. Volevo trasformarmi nei suoi occhi.

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