Prima icona della lotta pacifica per la democrazia. Poi, una volta arrivata al potere, si è trasformata in una sorta di paria per l’Occidente, imbarazzato dal suo premio Nobel per la Pace vista la sua difesa della persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya. Ora con il golpe militare e il suo arresto di Aung San Suu Kyi, 75 anni, aprono un nuovo capitolo della sua vicenda umana e politica, in un paese dove la sua popolarità è più forte che mai. E potrebbero spingere l’Occidente a rivedere il giudizio nei suoi confronti.

Suu Kyi aveva due anni nel 1948, quando suo padre Aung San fu assassinato poco prima che l’allora colonia britannica della Birmania diventasse un paese indipendente. Il suo status di figlia del martire, unito alla somiglianza fisica e di modi con il padre, hanno definito la sua vita. Alla metà degli anni Sessanta, la giovane Suu Kyi s’iscrisse all’università di Oxford, dove studiò filosofia, politica ed economia. E qui incontrò il marito, l’accademico britannico Michael Aris, sposato nel 1972, con il quale ebbe due figli, Alexander e Kim.
Ma Suu Ky aveva messo in chiaro fin dall’inizio che la Birmania avrebbe avuto la precedenza. “Non ha mai dimenticato, neppure per un momento, che era la figlia dell’eroe nazionale birmano“, scrisse Aris nel 1991, nella prefazione del suo libro Freedom from Fear (libertà dalla paura).

Allora Suu Kyi era già tornata in patria. Era arrivata nel 1988 a Yangon (o Rangoon, capitale del Myanmar fino al 2005) per prendersi cura della madre malata, ma non aveva potuto ignorare la la protesta studentesca scoppiata allora contro il regime del generale Ne Win. “Come figlia di mio padre non potevo rimanere indifferente a quanto succede”, disse in un famoso discorso a Yangon il 26 agosto 1988, che la consacrò come simbolo della lotta alla democrazia. Ispirata dalle campagne non violente di Martin Luther King e il Mahatma Gandhi, Suu Kiy organizzò comizi e marce in tutto il paese, ma la protesta fu brutalmente repressa dai militari a metà settembre. La figlia di Aung San fondò la Lega nazionale per la democrazia (Nld) e nel luglio 1989 fu posta agli arresti domiciliari.

Fu allora che nacque il mito. “The lady“, la signora, come l’hanno sempre chiamata con reverenza i birmani, rimase agli arresti domiciliari, con alterne vicende, per 15 dei 21 anni successivi. Poteva tornare in Occidente dalla sua famiglia, ma avrebbe dovuto lasciare per sempre il suo paese. Scelse di non farlo e il suo sacrificio divenne un simbolo potentissimo, soprattutto quando questo significò non dare addio al marito, morto di tumore nel 1999.

Nel frattempo, il suo partito vinse ampiamente le elezioni del 1990. Ma la giunta militare al potere non riconobbe il risultato. Chiusa nella sua casa, Suu Kyi ricevette il premio Nobel per la pace nel 1991. Finalmente fu liberata il 13 novembre 2010, poco dopo elezioni vinte dal nuovo presidente, il generale Thein Sein, che avviò una prima apertura a riforme democratiche. In aprile, Suu Kyi fu eletta in parlamento ad elezioni supplettive, diventando la leader dell’opposizione.

La nuova costituzione tracciata dai militari conteneva una clausola su misura per Suu Kyi, vietando a chi aveva figli di nazionalità straniera di diventare presidente. Ma nel novembre 2015, quando l’Nld vinse le elezioni con una marea di voti, “The lady” installò un suo stretto consigliere come presidente, assumendo il ruolo, creato per lei, di consigliere di stato, e l’incarico di ministro degli Esteri.
In questa posizione, Suu Kyi è diventata leader di fatto del paese. Ma nei cinque anni in cui ha governato ha dovuto mantenere un difficile equilibrio con i militari che, in base alla costituzione, controllano un quarto dei seggi del parlamento e alcuni ministeri chiave.

Icona della democrazia, elegante e bellissima nell’abito tradizionale, con un fiore dietro l’orecchio, Suu Kyi aveva ripreso a viaggiare in Occidente nel 2013 – in ottobre di quell’anno venne in Italia, dove le fu conferita la cittadinanza onoraria di Roma – ed era accolta ovunque con il rispetto e l’entusiasmo dovuto ad un simbolo. Ma nel 2017, l’incantesimo ha cominciato a spezzarsi. I militari birmani hanno lanciato una brutale persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya, con migliaia di morti e villaggi devastati. Suu Kyi non si è opposta e, dopo un iniziale silenzio, ha spalleggiato i militari nel parlare di ‘fake news’. Nel 2019 è anche andata al tribunale internazionale dell’Aja per difendere il suo paese dall’accusa di genocidio. È stato allora che l’Occidente le ha voltato le spalle, mentre diverse istituzioni revocavano premi e riconoscimenti dati in passato.

In Myanmar, dove la stragrande maggioranza buddista dei cittadini si sono allineati alla propaganda dei militari sui Rohingya, Suu Kyi è invece rimasta popolarissima. Alle elezioni dello scorso novembre, il suo partito ha ottenuto l’83% dei voti, il maggior risultato di sempre. Il braccio politico dei militari, il partito dell’Unione solidale e lo sviluppo, ha reagito con accuse, mai provate, di brogli. E oggi, poche ore prima dell’insediamento del nuovo parlamento, è scattato il golpe militare con l’arresto di Suu Kyi e altri suoi collaboratori.

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