Sami Modiano è uno dei pochi sopravvissuti all’orrore della Shoah. La sua storia, prima e dopo l’incubo del campo di sterminio, è una trama intessuta di addii e partenze, ma anche di coraggio e determinazione. L’ha raccontata nel libro Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz – Birkenau e altri esili edito da Paperfirst in coedizione con Bur-Rizzoli in una nuova versione con la prefazione di Enrico Mentana e la postfazione di Umberto Gentiloni Silveri, in vendita soltanto in edicola a 8,90 euro più il prezzo del quotidiano.

Di seguito riportiamo l’estratto del volume in cui l’autore ricorda l’arrivo alla Rampa del campo di sterminio, dove un medico è incaricato di decidere la sorte dei prigionieri: le opzioni sono la morte istantanea nelle camere a gas o la condanna ai lavori forzati. Il piccolo Sami viene risparmiato solo grazie alla tenacia del padre, che lo tiene sempre vicino a sé, anche quando vengono marchiati a fuoco con il tatuaggio distintivo dei prigionieri.

***

Il treno si fermò che era mattino e gli uomini si precipitarono a guardare fuori dai finestrini per capire dove fossimo. Io ero troppo piccolo per arrivare in alto e sbirciare il panorama, ma un adulto mi disse che in lontananza non si vedeva altro che qualche baracca, niente di più. Tutti pensavano che dopo un po’ saremmo ripartiti, che quel posto in mezzo al nulla non fosse la nostra destinazione. Era assurdo pensare che avevamo fatto un viaggio così disumano per poi fermarci in un buco sperduto. Non ne vedevamo il senso o non volevamo accettarlo. Eravamo arrivati sulla Rampa di Birkenau.

Si spalancarono i portelloni e davanti a noi si presentò qualcosa di incredibile: una squadra di tedeschi era già pronta a buttarci giù dai vagoni.

La confusione era totale, eravamo in preda al panico. Non potevamo aiutarci, non c’era niente da fare. Gli anziani erano come sacchi di patate: subivano ordini, calci e pugni. Eravamo come animali indifesi, minacciati dai cani pastore. Ognuno di noi cercava di non perdere di vista i propri cari, ma i tedeschi erano preparatissimi: in pochissimo tempo divisero gli uomini dalle donne con una barbarie che non si può immaginare. Noi eravamo sbalorditi da questa cattiveria. I neonati e i bambini piccoli erano lasciati insieme alle madri, nel gruppo delle donne.

Mio papà aveva capito subito che ci stavano separando, allora ci teneva stretti stretti. Ma i tedeschi vennero e cercarono subito di strappare mia sorella Lucia dalle mani di mio padre, che la difendeva con tutte le sue forze. Lo presero a calci e a pugni, finché, poverino, dovette cederla. Non poteva fare altrimenti, non c’era altra possibilità. Io non riuscii a dire niente a Lucia, l’abbracciai, mi abbracciava… Fu uno strappo, un dolore vedere mio papà, poverino… fare tutto quel che poteva, ma invano.

E poi cominciò la selezione. La faceva un medico, ma non era solo, al suo fianco c’era un gruppetto di ufficiali e di sottoufficiali ai quali ogni tanto dava ordini. Se l’arrivo era stato un momento frenetico, di confusione, di pianti e strilli, quello della selezione fu invece un momento di silenzio, assoluto. Noi eravamo in fila, e uno per uno passavamo davanti a questa persona, questo medico di cui non pronuncio il nome, perché non merita che lo faccia. Lo vedevamo fare un semplice gesto con un dito, lanciare un solo sguardo: questi di qua, questi di là, questi di qua, questi di là. Da una parte i giovani, quelli più forti, dall’altra gli anziani, gli ammalati, i deboli, ed erano tanti, molti più dei primi. Con quel semplice gesto, con quel solo sguardo lui decideva chi doveva ancora vivere, per poco, e chi doveva subito morire. Ma in quel momento noi non capivamo. Si può definire una persona questo medico? Neanche un animale fa cose simili. Si può pronunciare il suo nome? Io non lo faccio. Aveva l’autorità di mandare a morte migliaia di persone innocenti in un solo giorno… le ha tutte sulla coscienza. Come poteva andare a dormire la sera? E come avrà potuto dormire dopo la guerra tutti gli anni che ha vissuto?

Prima di noi selezionarono le donne. Le vedevo in fila, mia sorella era con le altre giovani scelte per andare a lavorare. Non riuscivo a staccare lo sguardo da lei.

Poi mi trovai davanti a una scena che i miei occhi non avrebbero mai voluto vedere. Una giovane donna ebrea di Rodi, avrà avuto venti, ventidue anni, che stringeva un neonato fra le braccia, era stata giudicata adatta al lavoro. Le strapparono quella creatura per buttarla dall’altra parte, con le vecchie. Noi non capivamo il perché, e nemmeno quella mamma sapeva che il suo piccolo sarebbe subito finito nelle camere a gas, mentre lei era stata scelta per andare a lavorare. Non capivamo, ma la crudeltà di ciò che stavano facendo a quelle donne era una tortura per tutti. Ancora oggi, quando ritorno sulla Rampa di Birkenau, questa scena la vedo davanti agli occhi. Mi è rimasta dentro, non la posso cancellare. Rivedo ogni volta quella mamma che si dispera, che piange, che strilla… come si può dimenticare?

Alla fine venne il nostro turno. Io ero con mio papà e per la verità non ero stato scelto per andare a lavorare. Fu la tenacia di mio papà a salvarmi la vita. Lui era un uomo di quaranta, quarantacinque anni, alto e abbastanza robusto; mi teneva per mano, dietro di sé, e quando venne scelto per andare a lavorare, nella confusione mi tirò a sé, così sono finito insieme a quelli selezionati per il lavoro. I miei cugini, più grandi di me di due anni, sono andati a finire dall’altra parte. Magari erano un po’ più mingherlini, io invece ero più robusto, perché prima della deportazione avevo lavorato a Monte Smith con la carriola e la pala, mi ero fatto un po’ di muscoli. Forse dimostravo anche qualche anno in più. Non mi chiesero l’età, guardavano il corpo e basta. Mi chiedo spesso che cosa mi abbia salvato in quel momento, se la volontà di mio padre o la confusione. Forse il Padre Eterno…

Alla fine anche noi uomini ci ritrovammo in due gruppi, uno molto piccolo, il nostro, e uno enorme, che ricevette subito l’ordine di partire. Poi il nostro gruppo fu avviato in una direzione diversa, a destra. Noi dovevamo raggiungere la Sauna, loro andavano al gas, ma nessuno, né loro né noi, si rese conto di quello che stava per succedere.

Stavamo abbandonando la Rampa, ma quel luogo sarebbe rimasto nella mia testa per sempre. Non passa giorno che non la veda.

Camminammo in fila per più di un chilometro. Vedevo delle baracche, poi degli alberi. Mi ricordo di aver notato alcuni canali di scolo con dell’acqua: qualche tempo dopo avrei lavorato per pulirli. Lungo quel percorso c’erano anche due crematori; questo, però, lo seppi in seguito. Quella volta, la prima che facevo quella strada, io non vidi niente, nonostante i camini fossero ben visibili. Alla fine ci fermarono in un piazzale di terra battuta dove c’era un grande edificio: la Sauna, il luogo in cui avveniva l’immatricolazione di tutti i deportati ad Auschwitz scelti sulla Rampa per il lavoro forzato. Eravamo circa trecento, trecentocinquanta uomini, e ci dettero l’ordine di rimanere seduti. Io avevo di fianco mio padre, che mi stringeva sempre, non mi mollava mai. Restammo così per parecchio tempo, perché dentro c’era altra gente. Solo dopo ci accorgemmo che si trattava delle nostre ragazze, quelle di Rodi. Anche loro erano state portate qui.

Quando arrivò il nostro turno di entrare, ci diedero l’ordine di alzarci, di toglierci tutto quello che avevamo addosso e lasciarlo in uno stanzone. Eravamo completamente nudi e provavamo vergogna, anche tra uomini quel pudore era rimasto. Io non avevo mai visto un adulto nudo, ma soprattutto era la prima volta che vedevo mio padre nudo. A Rodi non si usava, erano altri tempi.

Poi passammo in un’altra stanza dove ci tagliarono i capelli e tutti i peli del corpo. Ci rasarono con una macchinetta elettrica, prima la testa, le ascelle e poi l’inguine e via dicendo: dove c’erano peli rasavano. Poi ci passarono delle spugne intrise di disinfettante ovunque, persino negli occhi. Bruciava dappertutto, soprattutto negli occhi e lì dove ci avevano appena rasati. Ero sul punto di piangere, ma mio padre mi fece coraggio e mi aiutò a pulire gli occhi. Ci fecero immergere i piedi in una vaschetta d’acqua con del disinfettante, come si usa oggi prima di entrare in una piscina. Ci obbligarono a fare una doccia molto sbrigativa.

Un attimo dopo ci fecero correre lungo un corridoio. Lì qualcuno ci lanciò un pigiama a righe, un cappello e degli zoccoli. Quelli sarebbero stati i miei vestiti fino al giorno della liberazione. Con tutta quella fretta, le cose venivano distribuite a caso e nessuno riceveva indumenti e calzature della taglia giusta.

Una volta vestiti ci fecero tornare all’aperto, in uno spazio dove avevano messo dei tavoli ai quali sedeva un prigioniero come noi. Era l’ultima procedura dell’immatricolazione: il tatuaggio, che ci venne fatto da quello stesso prigioniero. Mio padre mi teneva ancora per mano, fin qui non mi aveva mai lasciato; mi spinse verso il tavolo dove mise il suo braccio, davanti a me, quasi per farmi vedere come si doveva fare, perché io non provassi paura. Allora io lo imitai, mentre lui aspettava che finissero di tatuarmi. Infatti io ho il numero B7456, mio padre aveva il B7455.

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