L’avevamo preannunciato nelle due giornate nazionali di mobilitazione di fine ottobre contro le mascherine usa e getta nelle scuole. Il Centro Ricerca Rifiuti Zero di Capannori, l’associazione Zero Waste Italy, la fondazione Zero Waste Europe e la cooperativa sociale EtaBeta di Bologna hanno messo a disposizione mascherine certificate come dispositivo medico (non di generico “uso comune” fai da te) che tutelano al massimo la sicurezza dal virus ma anche dell’ambiente visto che esse sono lavabili almeno 25 volte.

Il lancio di queste mascherine è avvenuto dall’ufficio del Centro Ricerca Rifiuti Zero di Capannori alla presenza di Joan Crous, presidente della cooperativa EtaBeta e dei sindaci, rispettivamente Luca Menesini di Capannori (Lu) e Edoardo Prestanti di Carmignano (Po).

Questa storia iniziata dal luglio scorso può essere definita una “storia a lieto fine” da cui inizia una più generale stagione di una nuova e qualificata capacità di risposta dal basso (ecco la scienza dei cittadini!) anche quando le istituzioni pubbliche e tutti i soggetti industriali sembrano ignorare questi problemi. C’è stato davvero un lavoro di squadra alla base di questo risultato che ha coinvolto soggetti dal basso ma anche l’Università di Bologna ed in particolare il dipartimento di ingegneria.

Da un lato, senza l’apporto scientifico dall’Università di Bologna che ha svolto prove decisive per testare i risultati raggiunti, curando anche la selezione dei materiali più adatti, non sarebbe stato possibile raggiungere livelli così elevati di sicurezza; ma senza il lavoro di facilitazione, di disseminazione e di trasferimento di conoscenze di Zero Waste Italy non ci sarebbe stata questa “ostinazione” a cercare e trovare le soluzioni migliori possibili per l’ambiente. Il tutto, poi, grazie alla imprenditorialità sociale della cooperativa sociale Eta-Beta che ha investito risorse e curato i rapporti con l’università.

La mascherina prodotta con i “brand” di Zero Waste Italy e di Zero Waste Europe è una mascherina che riassume nella sua certificazione: eleganza e possibilità di essere personalizzata, sicurezza sanitaria al 100% nel proteggere dal virus, minimizzazione degli scarti e degli impatti ambientali. Essa è composta da due strati di stoffa e da una “tasca” interna dove viene posto il filtro avente funzione sanitaria.

La parte esterna è di uno speciale tessuto antivirale che anche nel caso venga toccato non consente la permanenza del virus; la parte interna è formata da cotone mentre il filtro, al momento prodotto da sola azienda italiana, risulta purtroppo ancora prodotto in tessuto non tessuto (Tnt) per garantire adeguata elettrostaticità ai fori al fine di raggiungere i massimi livelli di sicurezza oggi disponibili.

Così, mentre il filtro deve essere cambiato ogni giorno (ha un’efficienza di circa 6 ore) e gettato dopo l’uso, la mascherina è lavabile per almeno 25 volte e grazie alla sua superficie antivirale può essere lavata anche ogni 2-3 giorni. La parte usa e getta del filtro rappresenta in peso meno del 10% di ciò che scartiamo con le mascherine chirurgiche (pesa 0,27 grammi!).

Ovviamente, anche su questo versante la nostra ricerca continua ricercando soluzioni ancora più efficaci ma i numeri parlano chiaro: siamo al oltre il 95% di “rifiuto evitato”. La produzione e la disponibilità di questo Dm (Dispositivo Medico usabile anche sui luoghi di lavoro) è già in corso e fa capo alla cooperativa EtaBeta. Tuttavia, per raggiungere livelli produttivi di rilevanza industriale stiamo lavorando per coinvolgere il distretto tessile di Prato rimanendo, però, aperti anche a soluzioni più diffuse.

Intanto coinvolgeremo gli oltre 300 comuni italiani che hanno aderito alla strategia Rifiuti Zero (che rappresentano circa 7 milioni di abitanti!) affinché mettano a disposizione questa mascherina non solo nelle scuole ma anche negli uffici. Ci rivolgiamo però soprattutto al governo e al Commissario Domenico Arcuri perché prendano al volo questa opportunità i cui costi sono se non inferiori, non certo maggiori di quelli standard.

Un’ultima amarezza che ci auguriamo venga addolcita dagli impegni pubblici che auspichiamo vengano immediatamente manifestati: perché le migliori soluzioni di rilevanza ambientale (best practices) devono essere promosse dal basso e non provengono come in questo caso dal pubblico. Tanto più che la salute e la tutela ambientale rappresentano “beni pubblici per eccellenza”.

Articolo Precedente

“Pfas nei piatti compostabili”, l’inchiesta del Guardian. E in Italia? Si farà campionatura per analizzarli ed escludere potenziali rischi

next