“La vittoria è chiara, la volontà del popolo ha prevalso”. Al termine di una lunghissima giornata, Joe Biden si rivolge così alla Nazione dopo che i grandi elettori lo hanno incoronato ufficialmente presidente degli Stati Uniti. L’ex numero 2 di Obama ha ottenuto 306 voti, gli stessi che nel 2016 avevano permesso a Donald Trump di arrivare alla Casa Bianca con un esito che lui stesso definì “schiacciante”. E se all’epoca era così, ora Biden chiede “rispettosamente” a Trump di riconoscere allo stesso modo il suo trionfo. “Ora è tempo di voltare pagina. Di unire. Di riconciliarsi. Sarò il presidente di tutti gli americani”, ha aggiunto. “Adesso sappiamo che nulla, neppure una pandemia o un abuso di potere, può estinguere la fiamma della nostra democrazia“. Poi ha ribadito quali saranno le prime mosse della sua azione di governo: “C’è un lavoro urgente davanti a tutti noi. Mettere la pandemia sotto controllo vaccinando la nazione contro questo virus, fornire immediato aiuto economico così fortemente necessario a moltissimi americani che sono danneggiati oggi e poi ricostruire meglio di sempre la nostra economia”.

Tra i primi leader a congratularsi con Biden c’è Vladimir Putin, che in un telegramma ha espresso la fiducia che Russia e Stati Uniti, “che hanno una responsabilità speciale per la sicurezza e la stabilità globale”, possano, “nonostante le loro differenze“, aiutare realmente “a risolvere molti problemi e sfide che il mondo sta affrontando ora”. Il capo del Cremlino ha osservato che, in questa prospettiva, la cooperazione russo-americana, basata sui principi di uguaglianza e di rispetto reciproco, “risponderebbe agli interessi dei popoli di entrambi i Paesi e dell’intera comunità internazionale”.

A mettere il sigillo sull’elezione di Biden e della sua vice, Kamala Harris, sono stati i 538 “grandi elettori” dei 50 Stati americani e della capitale. Un passaggio che di solito rappresenta una formalità, ma vista la resistenza di Trump ad ammettere la sconfitta è l’ennesimo passo verso la transizione del potere che avverrà in modo definitivo il 20 gennaio prossimo, quando Biden presterà giuramento. I grandi elettori, il cui numero varia in base alla popolazione, si sono riuniti in differenti fasce orarie per votare secondo il risultato del voto popolare nel loro Stato, come prescrivono le leggi, nonostante la possibilità di qualche ‘infedele’: 306 per il ticket dem, 232 per quello repubblicano, con un quorum necessario per entrare alla Casa Bianca di 270. Quorum che ‘Joe e Kamala’ hanno raggiunto verso sera dopo il voto della California e dopo che nessuno dei cinque Stati più contesi aveva riservato sorprese o defezioni. In alcuni casi le operazioni si sono svolte sotto alta tensione, come in Michigan, uno degli Stati più contesi, dove il parlamento è stato chiuso per “credibili minacce di violenza” arrivate ai congressmen di entrambi i partiti. In Wisconsin invece la Corte suprema ha respinto per la seconda volta il tentativo di Trump di invalidare oltre 200 mila voti.

Ma il tycoon sembra non avere alcuna intenzione di mollare la presa. Nella notte ha infatti annunciato via Twitter le dimissioni “forzate” del ministro della giustizia William Barr, in rotta con lui dopo aver negato i brogli di massa nell’election day. “Ho appena avuto un incontro molto bello con l’attorney general Bill Barr alla Casa Bianca. Il nostro rapporto è stato molto buono, ha fatto un lavoro straordinario!”, ha scritto Trump, spiegando che il ministro “lascerà prima di Natale per trascorrere le feste con la sua famiglia” ed allegando la lettera di dimissioni. Il presidente uscente ha reso noto che il suo posto sarà preso dal vice Jeff Rosen, il quale a sua volta sarà sostituito da Richard Donoghue.

Nonostante queste manovre, la strada di Biden ora è tutta in discesa: la Corte suprema ha già respinto l’ultimo ricorso del tycoon (anche se è a maggioranza conservatrice) e al Congresso, dove il 6 gennaio dovrà essere ulteriormente ratificato l’esito delle urne, sembra non esserci partita. I nuovi parlamentari potranno sottomettere obiezioni scritte che però saranno valutate solo se co-firmate da almeno un membro di ciascuna Camera. Altrimenti resteranno un puro atto di protesta, come successe nel 2017 quando diversi deputati dem contestarono la vittoria di Trump in alcuni Stati a causa delle interferenze russe ma Hillary Clinton aveva già ammesso la sconfitta e nessun senatore del partito si unì all’iniziativa. Se invece ci sarà una ‘coppia’ di esponenti delle due Camere, la seduta plenaria verrà interrotta e ciascuna Camera discuterà l’obiezione per un massimo di due ore, prima di votare se ribaltare il risultato dello Stato in questione. Ma per ribaltarlo davvero occorrerà il consenso di entrambi i rami del Parlamento, cosa che non succede dalla cosiddetta epoca della Ricostruzione, il periodo successivo alla guerra civile americana dal 1865 al 1877. Tanto più che la Camera è nelle mani dei dem, mentre le sorti del Senato – ora controllato dai repubblicani – sono appese ai due ballottaggi del 5 gennaio.

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