di Antonietta Gostoli (Università di Perugia)

Il dilagare del precariato nell’Università ha come causa primaria la scarsità delle risorse anche in rapporto a due cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni: un cospicuo aumento del numero delle Università e l’introduzione del 3+2 che richiede un numero più elevato di docenti rispetto ai tradizionali corsi di laurea quadriennali. Introdotta per avere laureati pronti ad essere avviati al lavoro dopo tre anni, anziché dopo 4 o 5, questa riforma non ha realizzato il fine per cui è stata pensata: pressoché tutti i laureati triennali si iscrivono al biennio, così si avviano al lavoro (quando lo trovano) dopo 5 o 6 anni di studio.

Riguardo ai concorsi universitari, è frequente la critica, riportata da Roberto Rotunno, che essi sono spesso concepiti ad personam, essendo il vincitore previsto prima ancora del suo svolgimento. Questa critica è sostanzialmente corretta, ma non tiene conto della specificità della carriera accademica. Un docente universitario, se è bravo, individua temi originali e metodi nuovi di ricerca che condivide con i propri allievi, ai quali affida anche la continuità degli studi nel tempo futuro.

Ho collaborato con un grande Maestro il quale aveva messo insieme una straordinaria équipe di lavoro. Per fare accettare a noi, allora giovani, le lunghe permanenze in Istituto (talora dalle 9 del mattino alle 21 di sera) ci diceva che tutti insieme eravamo come una bottega rinascimentale, dove il maestro tracciava le linee principali e gli allievi collaboravano all’esecuzione del lavoro, impadronendosi così dell’arte. In effetti, pur avendo dedicato ai suoi lavori molto del mio tempo e delle mie energie, ho sempre pensato che moltissimo mi ha ridato con la sua dottrina e con l’esempio di una vita dedicata all’insegnamento e alla ricerca.

Porto la mia esperienza personale per dire che, se gli allievi sono bravi e laboriosi, sembra naturale, anzi doveroso, che i singoli docenti e le strutture li aiutino a consolidare la propria posizione. Il problema è se invece lo fanno per “premiare obbedienza e fedeltà piuttosto che la bravura”, come si legge nell’articolo di Roberto Rotunno, o per altri motivi che niente hanno a che fare con la bravura. Ma ci sarebbe forse un possibile rimedio al malcostume: la mobilità dei docenti.

In Italia, dopo il passaggio dai concorsi a livello nazionale ai concorsi a livello locale, quasi tutti gli studiosi diventano professori nella sede in cui si sono formati. Una cosa inconcepibile nel resto del mondo. In particolare, esemplare è quanto succede in Germania: per il dottorato e per gli altri gradi di formazione, sono i professori che decidono chi reclutare, pressoché in piena autonomia.

Le possibilità sono tante, non scarse come in Italia. Ma quando uno studioso consegue poi l’abilitazione all’insegnamento universitario, lui non può diventare professore nella stessa sede in cui ha lavorato fino a quel momento, ma dovrà presentarsi a concorsi banditi da altre università e rimanerci almeno per un certo numero di anni.

Questo sistema certamente non risolve alla radice i problemi di nepotismo e di clientelismo, ma sicuramente mette loro un bel freno. Secondo la legge “Gelmini” attualmente in vigore (240/2010, art. 18, comma 4) già un quinto delle risorse destinate da una Università alla chiamata di professori ordinari o associati dovrebbe essere utilizzato per chiamare candidati esterni ad essa. Sarebbe utile che la regola fosse estesa a tutte le chiamate, come in Germania, o almeno fosse incrementata il più possibile.

Alla luce della mia ormai lunga esperienza accademica, non vedo un’altra possibilità per ovviare al localismo e al conseguente scadimento della docenza universitaria, a meno che non si torni all’espletamento a livello nazionale dei concorsi universitari. Anche questa potrebbe essere una via percorribile.

“Gentile Professoressa, grazie per il suo intervento che permette di vedere le cose anche da prospettive diverse. Sosteniamo da tempo un’iniezione di maggiori risorse in favore dell’università e della ricerca, perché oggi tante persone – pur partendo molto motivate – poi preferiscono cambiare strada, avvertendo un ambiente in cui la competizione non sempre è sana. Immaginiamo sia necessario un riordino del sistema di reclutamento, che tenda a una maggiore trasparenza. Tocca però riuscire nella difficile impresa di portare questo argomento tra le priorità del dibattito politico.
Dalle testimonianze che abbiamo raccolto, infine, lascia amareggiati sentire che anche alcuni docenti universitari adottino a volte, soprattutto verso le ricercatrici, quei comportamenti che in genere associamo ai più spregiudicati datori di lavoro privato”.
Roberto Rotunno

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