Una mattina Daniela e il suo ragazzo sono usciti presto per fotografare Tokyo deserta. “Siamo arrivati a Shibuya Crossing, di solito un punto sempre pieno di gente. Era impressionante: non c’era nessuno”. Daniela Savatteri, 29 anni, vive in Giappone dal 2018. Lavora come interprete in un’azienda che ha base a Hiroshima, dove ha vissuto per un periodo prima di trasferirsi nella capitale. Nove milioni di abitanti mai fermi, tranne che per il periodo fra metà marzo e metà maggio: “Non c’è stato un lockdown come in Italia, perché per legge non possono impedire alle persone di uscire. Ma era tutto chiuso tranne supermercati e farmacie. Le aziende hanno mandato il personale in smartworking appena hanno potuto. A me lo hanno detto da un giorno all’altro: io e miei colleghi lavoriamo a casa da marzo e ancora non ci è stato detto quando riprenderemo in presenza”.

I trasporti hanno continuato a funzionare seguendo la regola ormai aurea del distanziamento. Le scuole hanno seguito un calendario diverso a seconda della regione: a Tokyo classi sospese da metà aprile a metà maggio. In generale le restrizioni vengono rispettate, perché la mascherina per i giapponesi è un oggetto tutt’altro che nuovo: “La mettono da sempre. Prima della pandemia, se qualcuno aveva il raffreddore o la febbre si indossava per andare al lavoro e per non contagiare gli altri. Molte aziende infatti non pagano la malattia”, spiega Daniela. Non vede la sua famiglia dall’ottobre del 2019, quando è tornata in Italia per un viaggio di lavoro. Poi la pandemia ha reso le cose più difficili: “Ho pochi giorni di ferie all’anno quindi non posso rientrare spesso. Ma, soprattutto, fino ad agosto c’era un altro problema: gli stranieri residenti in Giappone come me non potevano rientrare dopo essere usciti dal Paese, proprio per esigenze anti-contagio. Quindi io non mi sono mossa. Ora possiamo avanzare richiesta, ma non è detto che venga accettata”.

Milanese, Daniela ha tante città alle spalle: Londra, Lubiana, Kyoto, ancora Londra e Hiroshima. Prima di tutte queste però c’è stata Venezia, dove si è laureata all’università Ca’ Foscari nel 2017 in lingua e culture dell’Asia e dell’Africa mediterranea. Il Giappone nella sua storia è sempre stato presente, anche prima che lei se ne rendesse conto: “Tutto è cominciato con mio nonno. Da giovane faceva karate. Conosceva il russo e il giapponese, e cercava di insegnare alcune parole a tutta la famiglia, quando eravamo a tavola. Io ero una bambina, sentivo solo suoni strani e non capivo”.

Poi, a distanza di anni, Daniela ha messo insieme i pezzi: “Più tardi, ascoltando una canzone giapponese, ho riconosciuto proprio alcuni di quei suoni che mio nonno aveva cercato di insegnarci. Erano numeri”. La passione è nata così. Comincia a studiare la lingua nipponica da sola, consultando corsi online in biblioteca: “Avevo circa 15 anni ed ero incuriosita da quel codice così particolare. Cercavo di impararlo come potevo, pur non avendo la connessione Internet a casa”. Poi, anni dopo, durante un soggiorno a Londra lavora da un parrucchiere giapponese, come interprete. Fa l’Erasmus a Lubiana, vince una borsa di studio a Kyoto. Il successivo rientro in Italia è un po’ amaro, almeno da un punto di vista lavorativo. Riparte ancora per Londra, ma sono giorni difficili: “Vivevo in un ostello di fortuna, di notte dormivo abbracciata allo zaino perché temevo mi derubassero”. Per un mese mangia solo insalata, perché non può permettersi altro.

La situazione migliora col tempo, ma la svolta arriva con una notifica su LinkedIn: da Hiroshima la cercano per un lavoro, che lei accetta subito. Così impara a conoscere la società del Paese, severa e molto attenta all’etica sul lavoro. Scaccia la solitudine immergendosi nella fotografia. La pandemia ha lasciato il segno, come per tutti: secondo la Johns Hopkins Univeristy il Giappone conta in tutto circa 1700 morti e più di 100mila casi. Numeri decisamente più contenuti rispetto a quelli italiani – contando poi che la popolazione è più che doppia con 126 milioni di abitanti – , da mettere in relazione però ai pochi tamponi fatti. Una scelta del governo, che li ha predisposti solo per i casi più gravi e ha chiesto alla popolazione di non rivolgersi ai medici fino al quarto giorno consecutivo di febbre (fino a due giorni per la fascia anziana della popolazione). La diffusione del contagio, quindi, potrebbe essere più alta. “Ho ancora paura e cerco di fare a casa quello che prima facevo fuori”, continua Daniela. “Sto studiando per un esame di lingua giapponese insieme ad alcune amiche russe: invece di incontrarci ci troviamo su Skype. Durante i mesi più difficili il mio pensiero andava sempre alla mia famiglia, a Milano. Ascoltavo le notizie e capivo che non potevo fare nulla. Mi sentivo impotente e preoccupata”. Tornerà, dice, ma ci vuole pazienza: ancora non è il momento di viaggiare.

(Foto di Earl Standerford)

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