“Credo che si debba con decisione intervenire sulla popolazione chiedendo di ridurre tutto quanto non è strettamente necessario. Non voglio dire superfluo, perché ci dicono che terrorizziamo le persone e non badiamo all’aspetto psicologico. Le assicuro che abbiamo da badare anche all’aspetto psicologico di noi stessi. Le posso garantire che il personale, che pure regge, è estremamente sconfortato da questa seconda ondata di malattia che ci sta opprimendo di nuovo. In questo momento torna la similitudine con la guerra. Se per tenere le persone su di morale devo fare della propaganda non lo faccio, non è corretto. Credo che si debba dire alle persone di regolarsi e autodeterminarsi e collaborare al disegno collettivo di liberarci da questo virus o contenere il più possibile i danni. Tocca tenere duro”. In questo disegno Massimo Galli, primario del reparto di Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano e ormai volto noto in tv, inserisce “misure decise e ben fatte” con le “amministrazioni locali” che devono individuare le zone a rischio e permettere di tamponare. E se non lo fanno loro allora che “le decisioni vengano prese dall’alto. Si fa così e si chiude molto di più”.

In questo momento è meglio una gradualità delle misure come dice il premier Conte per poi rischiare un lockdown durissimo o meglio farlo subito?
È passato il tempo delle gradualità. Bisogna che alcune misure siano decise e ben fatte.

Quindi lockdown subito?
No. Mi va bene il coprifuoco subito. Mi va bene il ridimensionamento subito delle presenze a scuola e nei luoghi di lavoro. Mi va bene subito una qualche azione significativa sui mezzi pubblici.

Però il sindaco di Milano oggi ha detto che i ragazzi devono andare a scuola.
Non è che il sindaco non abbia ragione, il fatto è che per riuscire a farli andare a scuola bisogna fare in modo che l’infezione non vada oltre quello sta andando. Altrimenti tra 15 giorni siamo daccapo, ma peggio.

Peggio di marzo?
No. Ma dovremo affrontare un problema che si fa ancora più serio

Ma secondo lei cosa è mancato visto che ci troviamo in una situazione che evidentemente peggiora di ora in ora.
Ma lei l’ha vista la cartina d’Italia in termini di diffusione dell’infezione? In Lombardia si accorgerà che c’è tutta una concentrazione di puntini dalla parte che era stata meno colpita prima, anche se anche questo sta cambiando perché cominciamo ad aver problemi anche dove erano stati pesantemente coinvolti prima. Non certo come da noi a Milano, dove va piuttosto male. E comunque tra il 28 settembre e l’11 ottobre la Lombardia ha fatto 8110 diagnosi. È un numero di diagnosi che già ci toglie la possibilità significativa di fare dei tracciamenti perché sono troppi. Nessun sistema sanitario al mondo che regge. Vuole un esempio?

Naturalmente.
In Corea nel 2015 successe che arrivarono all’ospedale di Seul 185 casi di Mers che una malattia un po’ cugina della Sars. Fu necessario seguire 16mila contatti e ci furono 33 morti. Tutto questo generato da un caso solo di una malattia che ha la capacità di diffusione che è meno efficiente di questa. Mi lasci dire che è chiaro che non si può reggere se si continua ad andare in giro.

Anche voi al Sacco avete avuto un cluster.
Purtroppo sì.

E allora se lei fosse il presidente del Consiglio cosa farebbe oggi, subito?
Io farei quello che è stato fatto in termini di definire il coprifuoco, ma venga fatto come deve essere fatto. Alla gente si dia il segnale di stare il più possibile a casa. Non si può dire alla gente di uscire con prudenza, questo è il momento di dire di stare il più possibile in casa e di uscire se necessario. Ci confondiamo sempre sulla portata reale di una situazione e dei suoi pericoli. Il pericolo c’è e tocca che tutti ne prendano profondamente atto e che di conseguenza ci si muova. La prima prudenza è stare a casa e vedere amici e parenti via Skype o parlare loro al telefono. E questo in particolare in alcune aree metropolitane come Milano, Roma, Napoli dove anche l’alta densità di popolazione è un pericolo in sé. Già per cercare di tenere aperti fabbriche, uffici e scuole, abbiamo la necessità di avere dei momenti di esposizione maggior per quanto riguarda i trasporti, concentrazioni di persone. Se il discorso è questo, tocca considerarlo con tutte le prudenze e anche le decisioni del caso. Il segnale del coprifuoco è un segnale forte e se la gente collabora è verosimile che possa arrivare un miglioramento. Il passaggio successivo sono le amministrazioni locali. Credo che possano e debbano avere una capacità maggiore nell’identificare le situazioni a maggior rischio e metterci nelle condizioni di tamponare. È necessario farlo in questo momento in alcune situazioni specifiche.

Localizzazioni e misure mirate?
Decisioni. Ridefinizione della base di un decreto che possa consentire decisioni. Ponendosi il problema ora, perché se il discorso è che le decisioni importanti vengono comunque delegate allora tanto vale la pena che le decisioni vengano prese dall’alto. Si fa così e si chiude molto di più. Comunque la chiusura totale è la sanzione di un fallimento. Se bisogna chiudere tutto significa che non siamo stati capaci di incidere sui fulcri e i gangli di maggior rischio. Possiamo anche prendere atto e dire non ce la possiamo fare. Spero che non avvenga. E spero che quanto può essere messo in atto da subito sia sufficiente a fermare tutto. Purtroppo comunque c’è molta responsabilità individuale. Se i comportamenti non sono consoni non resta che chiudere tutto.

Così c’è il rischio che moriremo come sistema paese.
Così faremo parte di una crisi mondiale e si può sperare che la ripresa possa essere, come i grandi eventi bellici hanno insegnato, generalizzata. In questo momento qualcosa tocca sacrificare altrimenti potrebbe andare peggio.

Come se fossimo in guerra?
L’analogia c’è. L’andamento già più di un mese a questa parte era terribilmente esplicito. Forse per gli addetti ai lavori. Quelli come me non sono preoccupati da una settimana, ma da Ferragosto per come andavano le cose e poi a settembre perché i risultati dell’estate erano evidenti. Anche per i paesi attorno che ti suggerivano che alcuni comportamenti erano stati deleteri.

È vero che siamo passati dai malati abbandonati a casa a marzo all’eccesso di ospedalizzati?
Abbia pazienza, quelli che ho io qua è perché stanno veramente male. Stiamo facendo tamponi anche a quelli che non si sarebbero sognati di poterlo avere a marzo quando i pochi tamponi era riservati a quelli che stavano malissimo. Noi della grande ondata abbiamo documentato forse dal 10 al 15% del numero reale di quelli che si sono infettati. Ora non è così e succede che anche i sintomatici facciano il tampone prima di stare male e quindi arrivino prima di quanto arrivassero prima. Stiamo rapidamente virando su un aumento della richiesta di persone con una patologia grave che è l’espressione del fatto che si sta allargando il denominatore e che il numero di quelli che stanno male sul denominatore va rapidamente crescendo. La percentuale è sempre quella: circa il 5% del totale delle infezioni sono pericolose per la vita di chi le ha contratte. Gli altri possono star fuori ma questa è la stessa percentuale che era marzo quando avevamo la fila di bare. Solo che è una percentuale su un numero di infettati molto maggiore.

Perché Milano a marzo ha tenuto e ora invece sembra che non tenga?
Perché è altamente verosimile che il lockdown sia arrivato in tempo per impedire che il virus, nel suo imperscrutabile muoversi per la Lombardia e per l’Italia, arrivasse a infettare un numero così importante di persone a Milano città da metterci nelle stesse condizioni di tutte quelle aree del Lodigiano, Cremonese, Bergamasco, Bresciano e Mantovano che invece sono state durissimamente colpite. Il perché però francamente non lo sappiamo.

Un’ipotesi?
L’ipotesi è che sia arrivato attorno al 25 di gennaio e abbia cominciato a diffondersi a partire dal Lodigiano e poi raggiungere rapidissimamente l’area bergamasca e bresciana e da lì il Veneto. Nell’arco di una settimana probabilmente.

Lei sicuramente sa che ci sono stati casi di polmonite “con agente patogeno sconosciuto” segnalati nell’area della Bergamasca a fine dicembre.
Sono tutte cose che mi lasciano perplesso. La mia opinione sulla epidemia è che come tale sia arrivata attorno al 25 gennaio e sia passata da lì e non sia arrivata abbastanza qui a Milano. Vuole le prove?

Certo
A Castiglione D’Adda (Lodi, ndr), il test di sieroprevalenza tra il 18 maggio e il 7 giugno sul 90% popolazione con il pungidito: il 22,2% era positivo. Li ci sono stati molti ricoverati e molti morti e quindi si deve salire un po’: a quasi un quarto della popolazione. Di questi un buon 30/40% in modo del tutto asintomatico. Se andiamo a Carpiano (ultimo paese della provincia della città metropolitana di Milano a sud) non andiamo oltre il 6%. A Vanzaghello (ultimo paese della città metropolitana a nord ovest verso Varese) troviamo il 3,5% e zero positivi. Giriamo su Carpiano (provincia di Milano che confina con quella di Pavia) e a giugno troviamo 89 positivi su 1564 tamponi, il 5.7%. Una coda dell’infezione assolutamente poco diffusa in quell’area. A Milano centro la nostra ipotesi è che si sia arrivati almeno nella fascia tra i 20 e i 50 anni a circa il 7% di prevalenza. Ce lo dicono i dati dell’Atm, i dati dei donatori del Policlinico di Milano e ce lo dicono i dati di un’altra grande industria milanese che ora non posso citare per riservatezza.

Bisogna tenere duro ancora per molto allora.
Io l’anno prossimo per i miei 70 anni e dopo il pensionamento avrei voluto fare un viaggio da turista, non saltare da una conferenza all’altra o una missione come in passato. Qualcosa di esteso, per un mese, magari nel Pacifico. Non credo che lo farò.

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