“Immuni? Più che altro è una rottura di scatole. L’investimento sull’app non credo sia molto redditizio, meglio fare affidamento sul senso di responsabilità delle persone”. Parola di Vittorio De Micheli, direttore dell’Ats Milano, l’azienda sanitaria della metropoli più a rischio d’Italia, dove il numero di contagi ha appena fatto ripartire la caccia alle terapie intensive. Il caso più clamoroso è il Veneto. Nella regione di Zaia ci stanno pensando adesso, a quattro mesi dal varo dell’app nazionale e nonostante il contagio corra alla velocità di 500 nuovi positivi al giorno. Le domande, dopo tante polemiche e accuse, allora sono: chi ha boicottato l’operazione Immuni? Se l’app per il contact tracing non decolla, è davvero colpa di cittadini reticenti e irresponsabili? Oppure il mezzo flop chiama in causa ben altri indiziati?

Il fermo immagine dell’impasse è numeri diffusi dal Ministero della Salute: 8,6 milioni di download, appena il 14% della popolazione, 567 positività riscontrate tra gli utenti a fronte di 10.060 notifiche a chi è stato a contatto con i contagiati, “solo” 13 nuovi positivi individuati grazie all’applicazione che prometteva di prevenire potenziali contagi e nuovi focolai. Anche se nelle ultime settimane qualcosa è stato recuperato, siamo ancora lontani dai 14 milioni di download che – stando ai tecnici del Ministero della Salute – garantirebbero efficacia al sistema di sorveglianza via smartphone. Chi rema contro Immuni?

“Non certo i medici” mette le mani avanti il presidente dell’Ordine Filippo Anelli. “Tutti abbiamo sentito che non funziona perché i cittadini non lo scaricano, ma a quanto ci risulta è il sistema sanitario su base regionale che non attiva e non supporta adeguatamente questo strumento tanto importante”. Non è un mistero che, fin dalla gestazione, una tifoseria politica si sia scagliata contro l’app voluta dal governo centrale. Sulle barricate sono salite anche le regioni più colpite dal virus – come Veneto, Lombardia, Liguria e Piemonte – che il caso vuole siano governate da partiti all’opposizione. E che l’opposizione l’hanno fatta all’app: chi snobbandola, chi bollandola come inutile, chi paventando rischi per la privacy e di controllo sociale e chi semplicemente coltivando un’alternativa “locale”, affidata alle proprie direzioni sanitarie. Difficile capire quanto del pregiudizio “politico” sia stato trasmesso, come una cerniera, lungo i sistemi sanitari regionali cui il Ministero il 29 maggio, tramite una circolare, ha demandato la gestione di Immuni. Ma vale la pena provare.

Sondiamo il caso di Milano, dove non si fa mistero dello scetticismo con cui i vertici della sanità lombarda hanno accolto il contact tracing via smartphone lanciato da Roma. “Per il tracciamento tradizionale abbiamo reclutato 150 assistenti sanitari coadiuvati da medici del Dipartimento Prevenzione e sono tutti abilitati a usare l’applicativo inserito nel sistema nazionale della Tessera Sanitaria e ne stiamo reclutando altri 50”, spiega De Micheli dall’Ats Milano. Ed ecco la bocciatura netta: “Da subito però Immuni si è rivelata più una rottura di scatole che una risorsa. Gli operatori sono già oberati di lavoro e l’app richiede una serie di passaggi farraginosi che sono una perdita di tempo. Anche la formazione all’uso dell’app è un po’ carente: è stata fatta solo all’inizio, con tutorial trasmessi da Roma, ma gli ultimi arruolati non sono stati formati per nulla e quindi abbiamo dei sanitari che, quando devono sbloccare Immuni, aspettano il collega che lo sa fare. Molti lo scoprono durante l’inchiesta epidemiologica, parlando col paziente. Per questo dico che è un po’ una rottura di scatole, specie se i tracciatori già affogano nel loro lavoro”. E infatti, mentre il 15% dei lombardi scaricava l’App, l’Ats stava lavorando su tutt’altro fronte tecnologico: “A breve acquisiremo una piattaforma che consentirà di inviare sms direttamente dal laboratorio sul cellulare di chi risultasse positivo. Non per gruppi di contatti anonimi, ma direttamente all’interessato. Solo così velocizzeremo la possibilità di cura del soggetto positivo e interromperemo tempestivamente la catena del contagio”.

Anche in Liguria, dove non più di 14% residenti su 100 ha scaricato l’App, sembra difficile dare il giusto peso al contributo che può dare Immuni. “Mi risulta che i nostri operatori chiedano ai soggetti positivi se hanno scaricato l’App mentre compilano il questionario epidemiologico”, racconta Marta Caltabellotta dall’Asl3 Genova. Quante notifiche vi sono arrivate via Immuni? “Ecco, questo proprio non lo so. Per curiosità ieri sono andata a vedere, ma in effetti non sappiamo quanti hanno inserito il numero di tracciamento e quante notifiche ne sono derivate. Purtroppo non c’è una statistica fruibile su Poliss, il portale socio-sanitario ligure”.

Non esiste, chissà perché. Ed ecco il punto. Se dai vertici delle Ats l’applicazione di contact tracing è percepita (e rappresentata) come una “rottura di scatole” anziché una risorsa, la motivazione delle squadre di medici ingaggiati per utilizzarla e promuoverne l’uso non sarà molto diversa. Il presidente della Società Italiana di Igiene e Medicina preventiva Italo Angelillo spiega parte del flop con l’eccessivo carico di lavoro dei “tracciatori”, sostenendo che “può capitare che gli operatori di sanità pubblica, oberati dall’intenso lavoro di questi mesi, possano dimenticarsi di chiedere al paziente se ha Immuni”. Ma è davvero così?

Per il ministero della Salute e dell’Innovazione l’alibi dei medici riluttanti, oberati o smemorati regge poco in questa faccenda: “All’operatore che già sta facendo l’istruttoria sui contatti del cittadino risultato positivo viene chiesto solo un piccolo contributo di tempo e di attenzione. Si tratta di domandare se il soggetto ha scaricato l’App e se vuole inviare le notifiche. In caso affermativo, perché sempre di una adesione volontaria si tratta, l’operatore chiede il numero generato dall’app e lo immette nel sistema nazionale della Tessera Sanitaria che già utilizzano. Dopo di ché tutto il sistema di tracciamento viaggia in automatico”. Insomma, l’aggravio sarebbe modesto, non certo tale da provocare un boicottaggio dal basso.

Marco V. è un medico di famiglia di Bari e ha scelto di stare in prima linea nell’emergenza. “Prestato” all’Unità speciale di continuità assistenziale (quelle istituite per decreto il 9 marzo) ha lavorato poi nei Servizi di prevenzione e igiene dell’Usl che fanno il tracciamento epidemiologico dei contatti in caso di positività. La sua esperienza, da più punti di vista, è questa: “Come medici di famiglia non abbiamo avuto nessuna spinta a promuovere l’app presso i pazienti. Lo facciamo per coscienza e convinzione personale. Ma anche chi riceve una notifica dal Dipartimento d’Igiene non viene instradato verso Immuni. La mia esperienza dice che c’è una fortissima discrepanza tra le linee del governo centrale e quelle date a livello locale. Ed è surreale, perché sono più che sensate: se tutti avessero usato Immuni non saremmo in questa situazione. Mi sento però di escludere che le difficoltà nella sua diffusione siano imputabili alla reticenza o a difficoltà del personale sanitario, perché l’app è uno strumento che le toglie facilitandoci il lavoro”.

La teoria del “boicottaggio dal basso” non convince neppure l’epidemiologo Luigi Lopalco, assessore alla Sanità della Regione Puglia, dove l’app è stata scaricata dal 10% dei residenti: “L’app serve a rintracciare i contatti “nascosti” che in una normale indagine epidemiologica non sarebbero identificabili perché al di fuori della cerchia di amici, parenti o colleghi di lavoro. Chi opera nella prevenzione non può che supportare la scelta di Immuni”.

Gli indizi puntano dunque in altra direzione. Il boicottaggio, semmai c’è stato, è partito “dall’alto” e precisamente dai leader politici e dai vertici delle regioni governate dal centrodestra. Non è un mistero che siano stati fin da subito i primi irriducibili detrattori dell’app varata dal governo. Breve riepilogo. Immuni è partita sperimentalmente il 3 giugno in quattro regioni che sono Puglia, Abruzzo, Marche e Liguria. E le altre? Il 21 maggio il governatore del Veneto Luca Zaia, premiato dai dati del contagio e poi nelle urne, si era dimostrato scettico verso l’app annunciando che la Regione avrebbe lavorato a una sua strada per la tracciabilità. Il 28 maggio anche il governatore del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga (Lega) aveva ritirato la propria disponibilità alla sperimentazione. La Liguria, pur aderendo, ha tenuto il doppio binario sul tracciamento: quello del governo e quello messo in campo dalle autorità sanitarie liguri. In Piemonte il governatore Roberto Cirio aveva avvertito subito “non riteniamo opportuno incentivare l’uso dell’App”. La stessa cosa, lo abbiamo visto, è successa (e succede) in Lombardia. Anche dai vertici politici della Regione Marche il messaggio e l’esempio è tutt’altro che uno spot per Immuni. Francesco Acquaroli, di Fratelli d’Italia, pochi giorni fa ha dichiarato di non averla scaricata e di non avere alcuna intenzione di farlo. “Non possiamo pensare di sconfiggere il virus con un’app”, ha tagliato corto. Ma anche nella Sicilia che detiene il primato negativo dei download (7,8% della popolazione) il messaggio è lo stesso: “No, non l’ho scaricata. Ho la mia assistente che ogni giorno è la mia sentinella” ha fatto sapere Nello Musumeci a SkyTg24. Lo stesso Matteo Salvini, del resto, ha ribadito di non averla scaricata. Mandando un messaggio del tutto opposto a quello del governo che la Meloni usa così: “Immuni è un fallimento completo. Il governo taccia e si vada a nascondere”. La spallata via app, insomma. E qui, probabilmente, sta il nodo della vicenda.

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