L’anno che stiamo attraversando ha riportato al centro della scena il tema della famiglia che da sempre risveglia, nella politica e nella parte di società più integraliste e reazionarie, istinti autoritari mai sopiti. A volte questo è accaduto in maniera strumentale, come nel dibattito sulla legge di contrasto all’omolesbobitransfobia, additata more solito come un attacco alla famiglia tradizionale, ma spesso il dibattito ha risposto all’emersione di questioni concrete.

E’ importante capire dunque se ci sia corrispondenza tra le sollecitazioni e le necessità reali che l’evoluzione sociale e lo stato di emergenza hanno solo evidenziato e il modo in cui la politica definisce oggi il concetto di famiglia. Va infatti premesso, come noto, che l’ultima riforma del diritto di famiglia, rivoluzionaria per l’epoca, risale al 1975: son dunque trascorsi 45 anni rispetto a una materia la cui evoluzione è continua e che richiederebbe di conseguenza frequenti aggiustamenti; aggiustamenti che però negli anni son arrivati più dalla funzione giurisdizionale che da quella legislativa. E fa perciò sorridere già il concetto di “tradizionale” applicato a una categoria che non conosce tradizione perché mutevolissima nel tempo e nelle culture: in realtà chi usa il termine “tradizionale” richiama uno schema mutuato dalla religione cattolica e che consiste nella triade padre-madre-prole. Ed è già tanto che sull’unione non si esiga più la benedizione di santa madre chiesa.

Ben altra duttilità ha mostrato nel tempo l’ordinamento dell’anagrafe che consente di registrare come nucleo familiare quel che ogni dichiarante intenda per sé come tale: le tipologie che la realtà e l’anagrafe inesorabilmente fotografano sono ormai innumerevoli, spesso nemmeno rispondono a delle logiche “affettive” in senso stretto e già il tentativo di enumerarle appare impossibile quando non discriminatorio ed escludente.

Gli indirizzi politici sul tema sono emersi chiaramente in due contesti ben precisi: la legislazione emergenziale in senso stretto e il ddl denominato “family act”. Gli indirizzi adottati evidenziano la resistenza a discostarsi dallo stereotipo esistente e da una visione confessionale: basti pensare alla cosiddetta fase 2 dell’emergenza e alla possibilità di far visita ai cosiddetti congiunti ma non agli affetti che sfuggissero a una logica familista; oppure all’assoluta indifferenza del legislatore riguardo alle famiglie omoparentali separate, nelle quali il genitore non biologico non ancora riconosciuto da sentenza, non ha potuto incontrare le proprie e i propri figli durante il lockdown, proprio quando più forti erano le esigenze affettive dei minori.

Un’ottica dettata dalla pervicace volontà di ignorare qualunque modello familiare che sfugga alla norma. Lo stesso atteggiamento era emerso anche in sede di stesura del family act che, ben lungi dal superare gli stereotipi, familiari e di genere, sposa ancora una volta un modello nel quale la donna viene relegata al ruolo di “angelo del focolare”: anche in questo caso il frutto di una visione indotta da impostazioni confessionali e che continua a considerare la donna come predestinata al carico derivante dal lavoro di assistenza e cura di minori e persone anziane.

Nessuna idea di piena e paritaria condivisione della genitorialità, nessuna volontà di spostare parte del congedo obbligatorio sui padri: si prende atto dello status quo mettendo in campo solo dei correttivi che consentano alla donna di conciliare il lavoro con gli impegni familiari che ineludibilmente gravano su di lei e non sul partner. La conciliazione dei tempi di vita e di lavoro diventa così un tema declinato unicamente al femminile.

In dipendenza di questa impostazione lo smart working emergenziale è stata scelto in larga maggioranza dalle lavoratrici per conciliare il lavoro e la cura dei figli durante la chiusura delle scuole.

In questo contesto può sembrare dunque velleitario voler ragionare su una riforma strutturale del diritto di famiglia e sul riconoscimento di tutte le forme familiari così come l’anagrafe le fotografa ma è questo il fine a cui tendere se si vuole andare oltre gli schemi. La consapevolezza che i modelli familiari son sempre più vari e – se si escludono impostazioni confessionali – tutti degni della stessa attenzione da parte dell’ordinamento, dovrà prima o poi indurre il legislatore a dare pieno riconoscimento alla famiglia che ciascuno scelga per sé a prescindere da qualunque tipizzazione forzata.

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