“L’ultima volta che ho salutato mio marito ho cercato di imprimermi nella mente tutto di lui. Il suo sguardo, la camicia di jeans chiaro che indossava. Era il 1992. Pensavamo che la guerra sarebbe finita in poche settimane e non capivo perché lasciarlo mi desse tanto dolore. Ora, invece, credo che soffrissi in quel modo perché sentivo che non lo avrei rivisto mai più”. Nadja Mujćić è una delle migliaia di donne che l’11 luglio di 25 anni fa hanno perso qualcuno nel genocidio di Srebrenica, un capitolo recente della storia europea in cui, nel giro di poche ore, 8.372 musulmani sono morti per mano delle milizie serbo-bosniache guidate dal ‘generale macellaio’ Ratko Mladić, condannato all’ergastolo dal Tribunale dell’Aja.

A un quarto di secolo dal massacro che ha reso celebre il nome di una cittadina bosniaca altrimenti sconosciuta, la ferita è ancora fresca. Soprattutto per chi, come Nadja, aspetta ancora di recuperare i resti di chi amava. “Almeno le ossa di mio fratello Mevko sono state trovate. È successo sei anni fa, me le hanno riconsegnate in una busta. Ma di mio marito Muharem non ho più saputo nulla. Per tanto tempo ho sperato che fosse solo prigioniero, che prima o poi sarebbe riuscito a liberarsi. Ma 25 anni sono troppi. E anche se il cuore vorrebbe sperare, è tanto che con la testa ho smesso di farlo”.

Nadja Mujćić

Scappata da Srebrenica nei primi giorni della guerra, fu in Italia che Nadja trovò la salvezza per lei e i suoi tre figli. Negli stessi mesi in cui cercava di costruirsi una normalità in terra straniera, il suo Paese veniva inghiottito da un conflitto dove rivendicazioni etniche, elementi religiosi e appetiti territoriali si mescolavano tra loro, fino a rendere il contesto incomprensibile. “Muharem era dovuto restare a Srebrenica per lavoro. Nelle conversazioni che avevamo sfruttando la frequenza dei radioamatori cercava di tranquillizzarmi, diceva che l’Europa non avrebbe permesso che succedesse loro qualcosa”.

Dall’altro capo del telefono il racconto di Nadja giunge ordinato, è una narrazione resa solida dal tempo. Solo qualche volta si prende una pausa, cerca in una lingua che non è la sua le parole più giuste per descrivere cose che lei stessa fatica a concepire. “So che in quei giorni di luglio la mia vicina di casa lo ha visto salire su un camion di paramilitari serbo-bosniaci. So che ha fatto un cenno timido di saluto, come per invitare chi lo guardava a non preoccuparsi troppo. Ma non saprò mai che cosa ha passato, quanto ha sofferto, le domande che si sarà fatto”.

Muharem fa parte delle oltre mille persone che, secondo la Commissione per la ricerca persone scomparse, non sono mai state ritrovate nelle fosse comuni in cui le milizie serbo-bosniache hanno disperso le vittime. “Ogni anno si abbassano le probabilità di trovarlo. Oggi, però, penso che siano soltanto delle ossa. Le bare in cui finiscono sono così leggere da sembrare fantasmi volanti. Per chiudere davvero questo cerchio di dolore avrei avuto bisogno di vedere il suo corpo morto”.

Anche Azra Ibrahimović fa i conti con questa sensazione di perenne attesa dal 1995. Originaria di Skelani, un paese sul confine con la Serbia, aveva solo 13 anni quando la guerra le è esplosa in casa. Nei primi giorni dell’aprile del 1992 osservava dalle finestre i carri armati nemici fare il loro ingresso in Bosnia-Erzegovina. “Io e la mia famiglia eravamo nel punto più pericoloso. Così, insieme a un’altra sessantina di persone, abbiamo deciso di scappare. Ci siamo trovati a vagare per giorni nei boschi. Finché non abbiamo saputo che a Srebrenica, a 40 chilometri da noi, l’esercito serbo-bosniaco era già stato respinto da quello musulmano. Pensavamo che lì saremmo stati salvi”.

Un gruppo così ampio di persone in viaggio, tuttavia, sarebbe stato rintracciabile dai paramilitari serbi. Da qui la scelta di separarsi: le donne, gli anziani e i bambini avrebbero raggiunto la Serbia, per farsi registrare come rifugiati dalla Croce Rossa Internazionale. Gli uomini dai 16 anni in su, invece, sarebbero andati a Srebrenica, diventata zona protetta e “libera da ogni attacco armato o da qualsiasi altra azione nemica”, grazie alla Risoluzione 819 del 1993, adottata nonostante i dubbi delle potenze europee che temevano di dover impiegare i propri contingenti di pace.

“Io e mia mamma Mejra abbiamo salutato mio papà Nefail e mio fratello di 16 anni Emir. Abbiamo vissuto come rifugiate in Serbia, poi in Macedonia. Poi si è presentata la possibilità di scappare più lontano. Ma nei mesi avevamo maturato il bisogno di sapere che cosa ne fosse stato di mio papà e di mio fratello. Così siamo tornate nel nostro Paese in guerra”. Le informazioni sui loro cari, però, resteranno per sempre frammentate e discordanti. La risposta definitiva arriva nel 2007, quando la Commissione per la ricerca persone scomparse le contatta: “Ci hanno detto che lo scheletro di mio fratello era stato ritrovato in una fossa comune in Serbia, identificato grazie al test del Dna. L’abbiamo recuperato e gli abbiamo fatto il funerale a Sarajevo. Ormai abbiamo accettato l’idea che anche mio padre sia morto. Ma non è mai stato trovato”.

Il Tribunale internazionale dell’Aja ha processato 20 persone per la mattanza compiuta a Srebrenica. Di queste, 15 sono state incriminate per genocidio, tra cui Radovan Karadžić, poeta incompreso e psichiatra di Pale a capo dell’allora Repubblica serba di Bosnia, condannato all’ergastolo. Sembra tuttavia che né le sentenze più severe, né il trascorrere del tempo possano alleviare il dolore di chi ha perso qualcuno in una delle più efferate operazioni di pulizia etnica avvenute in Europa. La stessa Europa che, all’epoca dei fatti, era certa di aver imparato dagli errori commessi durante la Seconda Guerra Mondiale.

Bekir Halilović con la foto del padre Hadid

Tra chi non riesce a mettersi il cuore in pace c’è Bekir Halilović. Nato a Srebrenica nel gennaio del 1994, la sua vita è stata per sempre cambiata da fatti di cui non può avere memoria. “La mia famiglia è considerata fortunata perché il corpo di mio padre Halid ci è stato riconsegnato al 100% ed è un lusso di pochi”. Per chi ha mosso i primi passi della sua esistenza su una terra dilaniata dal conflitto, perfino avere dei ricordi materiali da contemplare è un privilegio da non sottovalutare. Così, anche una fotografia sgranata può trasformarsi in una reliquia da custodire con cura. “La guerra ci ha portato via ogni cosa. Di mio papà ho soltanto due foto, in una è quasi irriconoscibile. Mi ci vuole immaginazione per figurarmi il suo volto, le sue espressioni. È strano sentire tanto la mancanza di qualcuno che non si è conosciuto per davvero. E da tutta la vita sopporto la frustrazione di non poter ricordare cose di cui pago le conseguenze”.

Quel che invece Bekir ricorda bene è il giorno in cui la Commissione per la ricerca persone scomparse ha chiamato la sua famiglia per il test del Dna. “Ci hanno mostrato il suo portasigarette di metallo e le foto dei vestiti che aveva indosso. La cosa assurda è che mia madre ha riconosciuto solo le mutande. La maglietta e i jeans non erano suoi. Probabilmente lo avevano costretto a togliere la divisa e a mettere altri vestiti”. Secondo Bekir, con il passare degli anni la sua voragine interiore si dilata invece di restringersi. “Sento che finché vivrò mi chiederò come sarebbe stato fare quattro chiacchiere con lui. Chiedere dettagli della sua personalità a mia madre la farebbe stare male. Ma da alcuni racconti di amici so che era un uomo timido, gentile. Sono descrizioni che non mi possono bastare. E sono convinto che se avessi conosciuto lui, conoscerei meglio anche me stesso”.

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