Il tribunale di Bari ha dichiarato il fallimento della società “Edisud” che editava la Gazzetta del Mezzogiorno e di “Mediterranea” proprietaria del marchio. Il giudice ha accolto la richiesta della procura che aveva chiesto la dichiarazione di fallimento per i circa 50 milioni di debiti accumulati, ma il magistrato ha concesso l’esercizio provvisorio che consente la prosecuzione delle pubblicazioni per il quotidiano di Puglia e Basilicata e scongiura il rischio di una chiusura immediata delle attività editoriali.

Il giudice Raffaella Simone, infatti, nel suo provvedimento ha chiarito che “la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, finalizzata all’esclusione del danno grave per i dipendenti e la comunità che usufruisce dei servizi editoriali potrebbe risultare non negativa anche per i creditori, potendosi fondatamente presumere che l’interruzione dell’attività riduca il valore del complesso aziendale, che, in costanza di esercizio, potrebbe essere più favorevolmente collocata sul mercato”.

Un modo insomma per provare a salvare lavoratori e creditori garantendo l’uscita nelle edicole della testata in attesa che arrivi un nuovo acquirente. Nel dettaglio sono due le sentenze emesse dal giudice, una per ciascuna delle società: per Edisud che ha una massa debitoria di circa 40 milioni di euro, il tribunale ha quindi nominato i curatori, Michele Castellano e Gabriele Zito, mentre per la Mediterranea, società come detto proprietaria della testata, della storica sede di via Scipione l’Africano a Bari e soprattutto concessionaria di pubblicità del quotidiano, i debiti accumulati sono di 7 milioni di euro e il giudice ha individuato come curatori Paola Merico e Rosario Marra.

La decisione del tribunale è l’ultimo atto di un vero e proprio calvario vissuto dai lavoratori della Gazzetta del Mezzogiorno. I guai cominciarono il 24 settembre 2018 quando la procura antimafia di Catania mise i sigilli ai beni dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo per un valore di 150 milioni di euro: tra questi le quote della Gazzetta, ma anche quelle de La Sicilia, le emittenti televisive regionali Antenna Sicilia e Telecolor e la società che stampa quotidiani Etis.

Il 24 marzo scorso era stata la Corte d’appello di Catania a dissequestrare i beni con un provvedimento che, entrando nel merito della vicenda, aveva affermato che “in nessuna delle singole condotte esaminate può dirsi raggiunta la prova di alcun consapevole contributo in favore” della mafia sebbene tra l’imprenditore e le famiglie catanesi “si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di ‘vicinanza/cordialità’”. In sostanza per i magistrati, la mafia avrebbe imposto un “rapporto di protezione” attraverso il pizzo per evitare ritorsioni e continuare a svolgere la propria attività. Una tesi che invece Ciancio ha sempre negato. Quando però i beni furono restituiti a Ciancio, le speranze di un ritorno alla normalità dei 150 lavoratori, fra poligrafici, amministrativi e giornalisti, sono state vanificate dalla dichiarazione dell’editore di voler mettere in liquidazione l’azienda. A distanza di qualche settimana, infine, è giunta la richiesta della procura e la decisione del tribunale.

Per la Fnsi e l’Assostampa Puglia la sentenza “chiude la stagione delle gestioni allegre e scriteriate” della Gazzetta che grazie all’esercizio provvisorio “scongiura l’interruzione delle pubblicazioni e pone le basi per il rilancio della testata, a partire dalla redazione, e per la tutela dell’occupazione”. In una nota, Fnsi e Associazioni regionali di Stampa di Puglia e Basilicata, hanno dichiarato che l’auspicio, ora, è che “il governo assuma con celerità ed efficacia ogni decisione utile a tutelare i posti di lavoro della Gazzetta del Mezzogiorno, accompagnando – tramite il tavolo con la Fnsi già insediato dal Dipartimento Editoria della Presidenza del Consiglio – l’iniziativa avviata dai giornalisti” per “tutelare l’informazione in Puglia e Basilicata” e “affiancando, con strumenti normativi ordinari, il lavoro che i curatori fallimentari sono chiamati a portare avanti, rimediando agli errori sin qui commessi” e per “consentire la tutela del pluralismo e dell’informazione in due fondamentali regioni del Mezzogiorno”.

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