Anche uno dei sequestratori del piccolo Giuseppe Di Matteo torna in carcere. Sono stati revocati i domiciliari a Franco Cataldo, 85 anni, condannato all’ergastolo per concorso nel sequestro del ragazzino rapito e poi sciolto nell’acido. Era stato posto agli arresti casalinghi nella sua abitazione di Geraci Siculo. I carabinieri, in esecuzione di un provvedimento della Corte d’appello di Palermo, lo hanno condotto nel carcere Pagliarelli a Palermo, da dove sarà successivamente trasferito in quello di Opera dove stava scontando la pena.

Cataldo torna in carcere in applicazione del decreto antimafia approvato in Consiglio dei ministri lo scorso 9 maggio. Il nome dell’uomo condannato all’ergastolo era contenuto nella lista dei mafiosi da riportare in carcere stilata dal nuovo vicecapo del Dap Roberto Tartaglia. L’iniziativa è stata intrapresa dal Dipartimento amministrazione penitenziaria dopo il decreto del 10 maggio scorso del guardasigilli Alfonso Bonafede, che ha attribuito al Dap il potere di iniziativa nell’indicare ai magistrati di sorveglianza soluzioni sanitarie idonee per consentire il rientro dei boss scarcerati per motivi di salute negli istituti di pena. Il decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri dieci giorni fai, imponeva ai giudici di Sorveglianza di rivalutare in 15 giorni se sussistono ancora i motivi legati all’emergenza sanitaria. Ieri a tornare in carcere per gli stessi motivi era stato Franco Bonura, uno dei colonnelli di Bernardo Provenzano.

Cataldo era stato arrestato con diversi altri mafiosi dopo la scoperta del bunker sotterraneo, in un casolare di San Giuseppe Jato, dove era stato segregato nell’ultimo periodo il figlio del pentito Santino Di Matteo, prima di essere strangolato e sciolto nell’acido su ordine di Giovanni Brusca. Secondo l’accusa uno dei covi utilizzati per nascondere il bambino sarebbe stata una masseria di proprietà di Cataldo.

Rapito il 23 novembre del 1993, il piccolo Di Matteo venne nascosto in diversi nascondigli, soprattutto isolate fattorie di campagna. Nel casolare di Cataldo fini tra l’estate e l’ottobre del 1994, quando l’uomo oggi scarcerato riuscì a restituirlo agli uomini di Brusca con una motivazione curiosa: visto che si avvicinava il periodo della raccolta delle olive, gli serviva il capanno dove era rinchiuso il ragazzino. In seguito il piccolo Di Matteo subì vari spostamenti fino all’omicidio e alla terribile tecnica usata per farne sparire il corpo: era l’11 gennaio del 1996, 25 mesi dopo il rapimento.

Dopo il rapimento i sequestratori contattarono il nonno con un pizzino: “Devi andare da tuo figlio e farci sapere che, se vuole salvare il bambino, deve ritirare le accuse fatte a quei personaggi, deve finire di fare tragedie”. Lo stesso giorno il pentito ebbe un colloquio con la moglie, intercettato, in cui la donna gli chiede, essenzialmente, di non parlare della strage di via d’Amelio. “Qualcuno è infiltrato per conto della mafia – dice – Tu non devi pensare alla strage di Borsellino. A Borsellino c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso…Bisogna capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella Mafia. Lui mi ha detto: suo marito deve ritrattare”. I due non hanno mai chiarito il significato di quell’intercettazione.

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